di Ornella Mallo                                                                                                       14/03/2020
Etty Hillesum voleva diventare una scrittrice. Lo annota in più passi, nei diari miracolosamente
sottratti all’Olocausto nazista per merito dell’amica Maria Tuinzing, cui la ragazza diede l’incarico
di custodirli per poi consegnarli all’amico Klaas Smelik, scrittore.
Etty desiderava ardentemente che fossero dati alla pubblicazione, per lasciare una traccia di sé.
In realtà, non furono apprezzati subito. Li esaminarono diversi editori senza capirne il valore.
Solo J. G. Gaarlandt, nel 1980, colse la profondità dell’autrice e dei suoi scritti, e decise di
pubblicarli, riscuotendo il successo internazionale che meritavano.
Sono otto quaderni fittamente ricoperti di una scrittura minuta e quasi indecifrabile.
Etty Hillesum era una giovane donna ebrea di 27 anni, nata nel 1914 a Middelburg, dove il padre
insegnava lettere classiche. Etty lascia la scuola del padre nel 1932. Si trasferisce ad Amsterdam,
dove consegue la sua prima laurea in giurisprudenza, e poi si iscrive alla facoltà di Lingue Slave.
Intraprende lo studio della psicologia mentre divampa la seconda guerra mondiale.
I diari fanno riferimento agli anni 1941 e 1942, vissuti ad Amsterdam. Morirà ad Auschwitz il 30
novembre del 1943.
Ad Amsterdam, Etty frequenta principalmente due gruppi di persone: uno è la famiglia presso cui
abitava, in una stanza al terzo piano di una grande casa che dava sulla piazza principale della città.
Proprietario era Han Wegerif, un vedovo di sessantudue anni, con il figlio Hans, di ventuno.
L’altro gruppo di persone fa capo a Julius Spier, psicochirologo cui Etty si rivolge per avviare un
percorso di psicoterapia. E sarà proprio Spier a stimolare la crescita psicologica della ragazza, cui
assistiamo, giorno dopo giorno, leggendo il suo diario.
In un passo scrive di volere “mettere in parole, suoni, immagini”. “Chissà se riuscirò a scrivere per
davvero, una volta o l’altra? Non sembra che lo creda molto – o mi sbaglio? Forse passerà molto
tempo prima che io sia capace di descrivere un momento simile, un momento alto nella mia vita.”
Quindi, la scrittura era lo strumento di cui si avvaleva per indagare sulla realtà che la circondava, e
per descriverla in tutta la sua profondità. Guardare la vita, andando al di sotto delle apparenze,
scandagliando gli abissi.
Scrive: “era proprio come se la vita mi apparisse altrettanto chiara e trasparente nei suoi mille
dettagli, nelle sue svolte e nei suoi movimenti.
Come se avessi davanti un oceano e ne potessi distinguere il fondo, guardando attraverso l’acqua
trasparente come cristallo.”
E che tipo di scrittura Etty anelava ad avere? Doveva essere una scrittura densa, data da un
bilanciamento perfetto tra parole e silenzio, in cui ogni parola ha il suo peso, e il silenzio anche.
Leggiamo: ”Vorrei scrivere parole che siano organicamente inserite in un gran silenzio, e non parole
che esistono solo per coprirlo e disperderlo: dovrebbero accentuarlo, piuttosto. Come in
quell’illustrazione con un ramo fiorito nell’angolo in basso: poche, tenere pennellate – ma che resa
dei minimi dettagli – e il grande spazio tutt’intorno, non un vuoto, ma uno spazio che si potrebbe
piuttosto definire ricco d’anima. Io detesto gli accumuli di parole. In fondo, ce ne vogliono così
poche per descrivere quelle quattro cose che veramente contano nella vita. Se mai scriverò – e
chissà poi che cosa? – mi piacerebbe dipingere poche parole su uno sfondo muto. […] La cosa più
importante sarà stabilire il giusto rapporto tra parole e silenzio – il silenzio in cui succedono più
cose che in tante parole affastellate tutte insieme”. “Le lunghe notti che passerò seduta a scrivere
saranno le mie notti migliori. E allora verrà fuori tutto quel che accumulo dentro, scorrerà pian
piano come una corrente senza fine.”
“Uno spazio ricco d’anima”, scrive. E della sua anima, sono pregne le pagine di questi diari, in cui
assistiamo, giorno dopo giorno, alla crescita spirituale della giovane Hillesum. Una donna dalla
grandissima carica interiore, che, oltre a tessere canti d’amore verso la scrittura, leva canti d’amore
verso Dio.
Anzi, i diari sono un dialogo continuo, ininterrotto con Dio.
“Mi hai resa così ricca, mio Dio, lasciami ancora dispensare agli altri a piene mani. La mia vita è
diventata un colloquio ininterrotto con te, mio Dio, un unico grande colloquio. A volte, quando me
ne sto in un angolino del campo, i miei piedi piantati sulla tua terra, i miei occhi rivolti al cielo, le
lacrime mi scorrono sulla faccia, lacrime che sgorgano da una profonda emozione e riconoscenza.”
Un Dio che non ammette etichettature: non può strettamente definirsi un Dio ebraico, o cristiano.
E’ un dialogo con il Divino che Etty sente dentro di sé, e a cui dà spazio, scrostando tutto ciò che di
materiale può ostruire alla sua luce.
Scrive infatti:”Se, dopo un processo laborioso che è andato avanti giorno dopo giorno, riusciamo ad
aprirci un varco fino alle sorgenti originarie che abbiamo dentro di noi, e che io chiamerò “Dio”, e
se facciamo in modo che questo varco rimanga sempre libero, lavorando a noi stessi, allora ci
rinnoveremo in continuazione e non avremo più da preoccuparci di dar fondo alle nostre forze.”
Sul valore della preghiera, scrive: “M’innalzo intorno la preghiera come un muro oscuro che offra
riparo, mi ritiro nella preghiera come nella cella d’un convento, ne esco fuori più ‘raccolta’,
concentrata e forte.[…] La concentrazione interna costruisce alti muri fra cui ritrovo me stessa e la
mia unità, lontana da tutte le distrazioni. E potrei immaginarmi un tempo in cui starò inginocchiata
per giorni e giorni – sin quando non sentirò di avere intorno questi muri, che m’impediranno di
sfasciarmi, perdermi e rovinarmi”.
Quindi, la preghiera come strumento per conservare la propria integrità. Leggiamo: “Dio mio, ti
ringrazio per avermi creata così come sono. Ti ringrazio perché talvolta posso essere così colma di
vastità, quella vastità che poi non è nient’altro che il mio esser ricolma di te. Ti prometto che tutta la
mia vita sarà un tendere verso quella bella armonia, e anche verso quell’umiltà e vero amore di cui
sento la capacità in me stessa, nei momenti migliori”.
L’ultima frase dei suoi diari è: “Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite”.
Infatti Etty appare come una persona luminosa, altruista, che non si lascia abbattere dalle difficoltà
dei suoi tempi. Difficoltà che emergono con sempre maggiore corporeità, man mano che passano i
giorni, e il clima oscuro della guerra prende sempre più piede. Essendo Etty ebrea, vive la realtà
dell’emarginazione, dell’olocausto. Quella dei campi di lavoro, dello sterminio irragionevole.
Eppure, non c’è pagina del suo diario che non mostri impronta della sua straordinaria voglia di
vivere, nonostante le difficoltà esterne, e anche le malattie, che minano la sua salute cagionevole.
Scrive sempre: “Eppure io trovo la vita bella e ricca di significato”.
Per cui, pure chiusa nei campi di sterminio, il suo sguardo cadrà sempre sull’infinito del cielo che
potrà scorgere al di là dei fili spinati. O sul ciclamino dai fiori rosa- rossi.
Di grande empatia, soffre per tutti coloro che condividono con lei il suo stesso destino. E scrive:
“Quando soffro per gli uomini indifesi, non soffro forse per il lato indifeso di me stessa?”
“Le mie impressioni sono sparse come stelle sfavillanti sul velluto scuro della memoria”.
Ecco la riflessione sul valore della forza interiore: “Sai, se qui tu non hai una grande forza interiore,
se non guardi alle apparenze come a pittoreschi accessori che intaccano il grande splendore che può
essere una parte inalienabile della tua anima, allora è proprio una situazione disperata. […]
Io non ho mai la sensazione che devo volgere qualcosa in bene, tutto è sempre e completamente un
bene così com’è”.
Questo carattere così solare di Etty, viene testimoniato dalla lettera con cui l’amico Jopie descrive la
sua partenza per il campo di sterminio, insieme alla sua famiglia. Etty è perfettamente consapevole
di ciò che l’attende. Eppure sale con dignità sul suo vagone n.12, e dal finestrino lancia “un allegro
ciaao”. Scrive Jopie. “Ed eccomi qua, certo un po’ triste per qualcosa che si è perduto, eppure no,
perché un’amicizia come la sua non è mai perduta, c’è e rimane.”
Contribuisce sicuramente alla crescita spirituale di Etty, l’uomo di cui si innamora, riamata, e che
morirà, nelle ultime pagine del diario. E’ un uomo molto più grande di lei, cui si rivolge per fare
psicoterapia, e dare ordine al suo caos interiore. Etty lo chiamerà sempre con la lettera S. maiuscola.
Si tratta dello psicochirologo Julius Spier. Era un ebreo emigrato da Berlino. Divorziato, aveva due
figli che erano rimasti in Germania con la madre. Emigrato ad Amsterdam, aveva un notevole
numero di seguaci, per la sua profondità d’animo, e la capacità di leggere nella psiche delle persone
che gli stavano intorno.
Nei diari, assistiamo alla nascita graduale, tra i due, del sentimento amoroso: dal lei, si passerà al tu,
per poi Etty diventare la sua segretaria, e poi la sua amante e compagna intellettuale.
Una relazione che durerà fino alla morte di Spier, interrotta solo nel periodo in cui Etty ha dovuto
recarsi ai campi di Westerbork. Tornerà ad Amsterdam per un breve tempo, molto malata. E
assisterà alla morte del suo amato. Sono delicatissimi, i pensieri che gli rivolge. Fra i tanti, citiamo:
“Un’anima è fatta di fuoco e di cristalli di rocca. E’ una cosa molto severa e dura in senso vetero-
testamentario, ma è anche dolce come il gesto delicato con cui la punta delle sue dita sfiorava le mie
ciglia”.
“Eppure quando cammino con lui, la mano nella mano, lungo il canale […], o quando, nella sua
cameretta, mi scaldo ai suoi gesti buoni e sinceri, allora provo di nuovo questa speranza e questo
desiderio così umani: perché non potremmo rimanere insieme?”
E dopo la morte, Etty ne sente ancora la presenza accanto a sé, anche nel cielo dei campi di
sterminio. Scrive: “Da qualche tempo Jul (Julius Spier) si libra nel cielo di questa brughiera, è una
cosa inesplicabile, è un nutrimento quotidiano”. Oppure:” Dicono che sei morto troppo presto.
Bene, allora ci sarà un libro di psicologia in meno ma è entrato un po’ più d’amore in questo
mondo”.
Concludiamo con una bellissima riflessione della Hillesum sul valore della forza interiore, che
giustifica la lettura dei suoi diari, in un’epoca in cui apparire è molto più importante che essere, e si
inneggia alla superficialità. In cui tutto è liquido, e niente ha valore. Si ammira, allora, la grandezza
di questa donna, che non ha perso la bussola morale in un’epoca in cui tutto avrebbe portato invece
a darsi per vinti, ad arrendersi. Scrive:”In fondo, il nostro unico dovere morale è quello di dissodare
in noi stessi vaste aree di tranquillità, di sempre maggiore tranquillità, fintanto che si sia in grado di
irraggiarla anche sugli altri. E più pace c’è nelle persone, più pace ci sarà in questo mondo agitato.”
Ornella Mallo