Recensione di Ornella Mallo
Palermo 23/01/2025
Giovanni Papini, unico autore italiano inserito da Borges
nell’”Antologia della letteratura fantastica” (1940), scriveva ne “I
racconti”: “Io sono, per dir tutto in due parole, un poeta e un
distruttore, un fantastico e uno scettico, un lirico e un cinico. […] Io
ho voluto far scaturire il fantastico dall’anima stessa degli uomini,
ho immaginato di farli pensare e sentire in modo eccezionale
dinanzi a fatti ordinari […], li ho posti davanti ai fatti della loro vita
ordinaria, quotidiana, comune, ed ho fatto scoprire a loro stessi,
tutto quello che c’è in essa di misterioso, di grottesco, di terribile.
Vedere il mondo comune in modo non comune: ecco il vero sogno
della fantasia. Pensare a quello a cui nessuno pensa, stupirsi di ciò a
cui nessuno bada – cercare ciò che a tutti sembra naturale – godere
di ciò che a tutti sembra insignificante”.
In questa citazione sono riassunti gli elementi fondamentali della
scrittura di Oreste Bevelli, che scegliendo il titolo “Disaccordi” per la
sua raccolta di racconti, pone immediatamente il lettore di fronte
alla tematica che intende trattare: il caos, disaccordo per
antonomasia. Il caos del mondo in cui viviamo, affetto da “Infezione
di vuoto emozionale terminale”, per come scrive l’Autore nel
racconto “La vita assente”, aggiungendo: “malattia infettiva che
avrebbe a poco a poco distrutto l’intera umanità…”.
Il disordine sociale si riverbera inevitabilmente sull’uomo
contemporaneo, sempre più confuso, disorientato, alla ricerca di
stabilità interiore. “Disaccordi” risulta dunque essere un vero e
proprio cammino all’interno della psiche umana e della “Grande
Depressione Mondiale” che affligge i nostri tempi, un percorso in tre
tappe scaturenti dall’affondo sempre più incisivo del bisturi da parte
dello scrittore: esse sono, rispettivamente, “Le regole
dell’apparenza”, “Pupi e teatrini”, “Transiti”.
“Le regole dell’apparenza”, ossia le convenzioni che muovono le
persone come “pupi” all’interno di “teatrini”, vengono letteralmente
scardinate da Bevelli e rivoltate come un calzino, allo scopo di
mostrarne il rovescio. Ne “La vita assente” leggiamo: “In concreto
tutti e due sembravamo due burattini, vittime di una messa in
scena per rappresentare una finzione”. Ne “Il diavolo di via
Malaspina” l’Autore scrive: “Sapeva, aveva imparato che la realtà
era il comune riflesso di una piatta superficiale apparenza. Soltanto
la sua caparbietà e insistenza svelavano il tranello, tutto quello che
sembrava normale, ma a volte anche straordinario, era un piano
bellico allestito per attirarlo nell’imbroglio. Un inganno. […] Tutto ciò
che aveva imparato alla fine lo portava sempre alla stessa
conclusione: lui in questo mondo illusorio era parte di uno
spettacolo, pura lucida finzione, forse un’allucinazione prodotta dal
suo cervello, in cui ciascuno impersonava una parte.”
Questo sguardo eversivo è rivolto dall’Autore anche nei confronti
dell’uomo, della cui personalità scandaglia le mille sfaccettature in
cui si frammenta. Dostoevskij, espressamente citato dal Nostro
come uno degli scrittori che hanno segnato la sua formazione, ne “Il
sosia” asseriva: “Un uomo è fatto di tutti gli uomini, li vale tutti e
tutti valgono lui.” Di rimando, Bevelli, in “C’eravamo tanto amati”,
scrive: “MarioLinoRosarioOrestePino, o forse
LinoOrestePinoRosarioMario, insomma amico mio, eravamo tanti
multipli di uno, forse troppi in un solo corpo, eppure tra le varie
identità qualcosa ancora ci univa: sapevamo che il mondo reale
stava trasformando i notturni in un cielo inconsueto […]. L’uno o
l’altro, cioè noi, sapevamo che la vocazione primitiva destinava
gran parte dei nostri sforzi ad appagare l’insaziabile istinto di
sopravvivenza e così resistevamo per affondare le nostre radici
stabilizzando l’equilibrio, assecondando qualsiasi imperfezione, per
non girovagare intorno allo specchio cercando di recuperare il lato
autentico del nostro profilo. […] Io, PinoOresteLinoRosarioMario,
insomma noi, abituati fin dall’adolescenza alla compiacenza, come
il servo fedele che impara nel tempo a soddisfare tutti i desideri del
padrone, replicavamo timidi i gesti degli eroi senza essere eroi,
uomini fragili eravamo!” Insomma, i condizionamenti sociali
deprivano l’uomo della libertà di azione, della sua autenticità
intrinseca, sicché questi non la riconosce, o la sconosce del tutto; e
si frappongono come schermo divisivo nei rapporti interazionali,
così che le persone non riescono a relazionarsi tra loro in modo
diretto, naturale, prestando reciproco ascolto alle loro richieste, ma
sempre attraverso la mediazione delle maschere che sono costretti
a indossare. Addirittura, gli uomini si chiudono gli uni agli altri,
imbrigliati come sono nella camicia di forza dell’ego. Nel racconto
“La nuvola gigante appare in cielo” Bevelli scrive: “Invero,
l’educazione all’ascolto sembra una virtù riservata a pochi
resistenti, è di moda, in questi tempi della Depressione Mondiale,
non dare spazio agli altri, adottare la finzione di ascoltare
manifestando però distrazione e insofferenza, una tecnica di
autodifesa, una forte riluttanza verso chiunque cerchi di ostacolare
la propria identità, una tecnica di autodisciplina per conservare la
composizione del proprio timbro vocale evitando il fastidio dell’altrui
ciarlare.” E inventa il personaggio di Mario Baldassi, incarnazione
dell’egotismo da cui sono affetti i ricchi capitalisti affollanti la scena
politica di oggi, egotismo che però li fa implodere in sé stessi: “Per
Mario Baldassi, ricco imprenditore milanese nel campo dei
fertilizzanti, l’umanità era sempre in guerra […] Ma lui non aveva
paura ed era affamato, tremendamente affamato, malvagio,
sempre pronto a soverchiare chiunque gli avesse impedito di
appagare ogni suo desiderio.”
Gli uomini contemporanei sono talmente alienati da sé stessi da
non riconoscersi neppure allo specchio!
In “Scusa se ti ho fatto dolore”, il protagonista Alfredo, appena
sveglio, si chiede: “Quello che mi guarda adesso, chi è? Penso di
essere cascato in un tranello. Ma oggi è venerdì 6 giugno, lo
specchio non serve. Poi… siamo sicuri che uno specchio rifletta?
Uguale, diverso, vero, non vero…”
In questo squadernamento delle apparenze, il confine tra realtà e
sogno, tra quanto si vive senza pensare e quanto invece resta
dentro, tra quello che si ricorda e quanto invece è realmente
accaduto, tra passato, presente e futuro, tra immaginazione e
immaginario, tra desiderio di libertà e costrizione nella gabbia del
quotidiano, diventa sempre più labile, e i diversi piani del vivere si
fondono e si confondono al punto da diventare preponderante, in
alcuni dei personaggi delle prime due sezioni della raccolta, il
sentimento dell’incertezza, la disarmonia dell’instabilità.
Nel racconto “Quel lontano giorno di fine aprile“ leggiamo: “Quel
lontano giorno di fine aprile del millenovecento e rotti, Alfredo
navigava nel grande mare del dubbio. Un mare in tempesta.
Aggredito dalla paura e dalla sfiducia in sé stesso e sprovvisto di
idonei mezzi di difesa per affrontare gli attacchi ostili alla propria
incolumità, lui aveva capito che nulla poteva fare e che pertanto era
bene accettare con rassegnazione il risucchio della realtà e sfiorare
l’ingombro crudele della sconfitta. […] in quegli attimi nulla
sembrava sicuro: l’incertezza masticava i semi della ragione.” Si
avverte un senso di ineluttabilità, che impedisce ai personaggi di
farsi arbitri del loro destino: “Mi sconforta sapere”, leggiamo, “che
da tanto tempo non sono più io a trasfigurare il reale circostante, le
cose cambiano e si trasformano da sole e io posso unicamente
sedermi ad assistere allo spettacolo del mondo.”
In questa indagine sulla vera essenza dell’identità dell’uomo, celata
drammaticamente dal conformismo e dall’omologazione, ciò che
balza all’evidenza è il camaleontismo di molti dei personaggi delle
prime due sezioni della silloge: alcuni protagonisti si sdoppiano fino
a immedesimarsi totalmente in cloni di sé stessi oppure in uomini
diversi; altri, invece, esattamente come nella “Metamorfosi” di
Kafka, assistono alla trasmutazione del loro corpo dallo stato solido
allo stato liquido, o diventano loro malgrado spaventosi insetti non
identificati, oppure si deformano senza potersi opporre a queste
trasformazioni, e senza che gli altri se ne accorgano. Tutto risulta
immerso nella più totale invisibilità, essendo i rapporti umani
inficiati dalla più grave disattenzione e indifferenza nei confronti
dell’altro. “Che cos’è la visibilità alla fine se non la certezza di
riconoscere d’essere sé stessi? […] Magari non elastici e flessuosi
com’è quest’ombra che ci precede, ma almeno sicuri che nessun
trucco ostacolerà il nostro incedere verso i giorni che ci aspettano.
Visibile, visibile. Occhi sgranati, aperti, asciutti, oppure socchiusi,
sbarrati, come asettici reperti di statici paesaggi?”, scrive il Nostro
in “Esercizio di stile. Atto primo.”
Nell’incipit del racconto che apre l’intera raccolta, «Lo strano caso
di Alfredo e dello ‘strofonio selvatico’», leggiamo: “Rimosse le forme
quotidiane di straordinarietà, consuetudine necessaria per
sopportare il disturbo, per Alfredo appariva normale essere
metamorfico”. E nel racconto “Respiro uno, due, tre” leggiamo:
“Quell’anno, […] Alfredo avvolse il complicato inspiegabile tempo
presente dentro un incarto sicuro, e da quel momento iniziò a
rappresentare la vita degli altri. […] Alfredo in un altro, Alfredo altro,
altro in un altro, in altri, forse tanti, troppi altri. […]
L’inverosimiglianza come altare dove conservare le definizioni del
presente.” E nel racconto “Le mani in pasta” il portiere dello stabile
neppure si accorge di quanto si sia accorciata la statura del
protagonista, che scorato afferma: “Nessuno mi guarda.
L’attenzione della gente sembra indifferente al mio patetico stato.”
Un’aura di solitudine avvolge la gran parte dei personaggi dei
racconti. Uomini e donne sono spesso contrapposti: gli uni
rappresentano la fragilità, il disordine, l’assenza; le altre il
pragmatismo, la necessità di vivere senza soffermarsi troppo a
guardare e a pensare.
Oltre che a Kafka, il metamorfismo dei personaggi di Bevelli fa
pensare a Cortazar, citato dall’Autore come scrittore di riferimento
insieme a Calvino, Amado, Bolano, Pavese, Montale, giusto per
ricordarne alcuni.
Di Cortazar condivide il gusto per il surreale, sottolineando come
l’assurdo sgorghi inevitabilmente da una realtà intrisa di paradosso.
Scriveva Camus: “L’assurdo nasce dal confronto tra la domanda
dell’uomo e l’irragionevole silenzio del mondo.” Altro strumento di
cui si serve Bevelli per mostrare il rovescio delle apparenze, e che lo
accomuna a Cortazar, è l’umorismo. L’ironia, infatti, permette al
Nostro di prendere dalle cose quella distanza necessaria a
dominarle senza lasciarsene risucchiare, così da poterne
caricaturare i difetti. Alejandra Pizarnik chiamava l’umorismo di
Cortazar “metafisico”, e possiamo traslare a Bevelli questa
definizione. Utile quanto scrive Freud a proposito dell’umorismo:
“L’umorismo ha non solo qualcosa di liberatore, come il motto di
spirito o la comicità, ma anche un che di grandioso e di nobilitante:
e questi tratti non sono rintracciabili negli altri modi di conseguir
piacere mediante l’attività intellettuale. Il grandioso sta
evidentemente nel trionfo del narcisismo, nell’invulnerabilità dell’Io
affermata vittoriosamente, l’Io rifiuta di farsi affliggere dalle ragioni
della realtà, di lasciarsi costringere alla sofferenza, insiste nel
pretendere che i traumi del mondo esterno non possano sfiorarlo,
anzi dimostra che questi traumi non sono altro per lui che occasioni
per ottenere piacere.”
Oreste “non lascia neppure il caso al caso”, per come scriveva
Pizarnik nella recensione dedicata alle “Historias de cronopios y
famas” di Cortazar; e dispone le parole in modo da assicurare alle
frasi un ritmo serrato, incalzante, quando racconta le storie di
Alfredo e degli altri personaggi delle prime due sezioni; simula la
musicalità del jazz o dell’Opera, altro espediente che lo accomuna a
Cortazar il quale scriveva: “il messaggio giunge all’intelligenza ma
con dello swing; il ritmo della frase – è qui che interviene la musica
– agisce nel lettore senza che lui lo sospetti”; il controcanto di
Bevelli: “Le note in testa rullano come un trattore in discesa. […]
Ogni giorno lo stesso patema. La ricerca della combinazione
musicale impossibile”; l’andatura delle frasi rallenta per farsi lirica e
malinconica nella terza sezione, “Transiti”, in cui l’umoristica
dissacrazione cede il posto ad un altro elemento importante nella
scrittura di Bevelli: la poesia.
In “Transiti”, infatti, l’Autore non si serve del dislocamento della sua
persona nella narrazione, come avviene invece nelle prime due
sezioni della raccolta: egli è talmente presente da impregnare i
racconti della sua pietas, della sua compassione verso le anime
sfortunate di cui racconta le sorti. Ecco, dunque, l’orrore della
Shoah: “qualcuno di loro [..] guardava le stelle e la luna […] Uno
sguardo d’angoscia e sconfitta dove il dio sembrava intimorito di
fronte alle grida della furia e alla razzia della sapienza”; Arash,
“Straniero, senza patria, clandestino”, consapevole di essere uno
tra i tanti poveri della città, sventurati senza un futuro. [..] la sua e
la loro vita erano precipitate nell’abisso dell’insignificanza”; Ashid,
“legato al bidone con la corda annerita”, […] Il grigio del cielo […]
una coperta di mare, il silenzio spezzato solo dal battito del suo
cuore che freddo stava sospeso come lui aggrappato alla plastica
nera”; il clochard Alan, assassinato da quattro balordi che gli
fracassarono il cranio l’ultimo giorno di marzo: “Quindici euro il loro
bottino per allungare la notte con l’ultima birra.”; Victory Uwangue,
23 anni, stordita e data alle fiamme forse perché voleva opporsi allo
sfruttamento: “Nessuna tregua per le fate migranti”; Alicia, che
lascia l’Argentina per trovare fortuna a Berlino; Sara, che “puzza del
carcere in cui era stata rinchiusa” per avere assassinato il
compagno Agostino, e che, uscita di prigione, prende il treno per
raggiungere il “mare bianco”. Il tutto annaffiato di puro lirismo, di
partecipe commozione e di rammarico per l’insensibilità che
corrode gli animi rendendoli sempre più feroci e disumani. L’Autore
riporta quanto scrive Michel Houellebecque nel finale di
“Serotonina”: “E oggi capisco il punto di vista di Cristo, il suo
ripetuto irritarsi di fronte all’insensibilità dei cuori: hanno tutti i
segni, e non ne tengono conto. È proprio necessario, per giunta, che
dia la mia vita per quei miserabili? È proprio necessario essere
esplicito?”
La realtà sensibile è comunque il segno tangibile dell’esistenza di
un mondo altro, armonioso, percepibile da uno sguardo attento, che
oltrepassi la superficie delle cose. Scrive Bevelli: “I segni rimandano
all’ancestrale e primitivo desiderio di riconciliazione con la terra,
quando noi umani eravamo padroni e prigionieri, custodi timorosi e
amorevoli, riverenti e attenti ad assecondare la natura in ogni sua
mutazione.” Fa da sfondo alla narrazione una Palermo che viene
descritta in tutti i suoi più nascosti meandri, con tutte le sue
contraddizioni, perfettamente speculari ai conflitti e alle
incongruenze dell’animo dei protagonisti: “Palermo città d’afa che
rallenta il battito, Palermo di cielo turchino che illumina le nuvole,
Palermo di pietra e di latta che la sabbia ricopre”.
Sempre nella terza sezione, nel racconto “Assolo. Studio
d’improvvisazione”, il Nostro raccoglie le sue riflessioni su ciò che
aspetta l’uomo dopo la morte, e scrive: “Una cosa importante: non
lasceremo traccia. Evaporeremo nell’aria, una nuvola leggera,
veloce e trasparente andrà a ricongiungersi a chissà cosa nello
spazio.” [..] “La filosofia serve a trovare ragioni per durare
all’affanno di questa giornata confusa, un’occasione per lasciare la
traccia luminosa che potrebbe identificarci come esseri umani.”
Ecco allora in cosa si racchiude il messaggio che Oreste intende
trasmettere al lettore attraverso la sua raccolta di racconti: occorre
operare delle scelte che riconducano all’essenza celata sotto la
spessa e grigia coltre del caos, per lasciare a chi viene dopo di noi
un mondo non più appesantito dall’egotismo e dalle sovrastrutture,
ma leggero, trasparente. “Le scelte”, scrive Oreste, “anche quelle
più banali, hanno un significato profondo, metafisico. Loro ci
avvicinano a quella nostra vita più grande , intima, potente, che sta
nascosta dentro di noi, o chissà dove, come un’ombra che si
specchia e sorride alle nostre spalle.”
“Il caldo esiste per farci soffrire”, ma noi dobbiamo essere quella
“brezza che arriva da chissà dove, da lontano, che [..] sfiora la pelle
e scuote le foglie degli alberi e asciuga i sudori del giorno,
scombinando il giro del mondo.”
È necessario fare posto all’amore, che, scrive Bevelli, “qualche volta
è una stretta di mano, un incontro di foglie che ingombrano il
cammino, un fiato raccolto in uno sguardo, un abbraccio che scivola
in discesa rotolando sulla quiete di un lago.”
Ornella Mallo