di Ornella Mallo                                                                                             09/07/2020

I resti di te. Li rincorro con occhi spenti, distratti, mentre fluiscono confusi in mezzo a tutto quel sangue che scorre imperterrito, dalle mie viscere.

Si allontanano dalle mie gambe, dalla mia vita, da me.

Era una bambina, mi dice il medico. Laconico. Intravedo il suo camice bianco, come il mio cuscino e il mio viso esangue.

Silenzio. Il senso di vuoto che mi pervade e mi riempie, dopo la fine.

Tracce dell’ovulo inserite in vagina di nascosto durante l’amplesso. Le intercetto, mentre mi lavo. Ti lancio uno sguardo adirato, urlo:

Cosa mi hai fatto? Come hai potuto?… Vigliacco!!!

Non voglio questo figlio, mi devi perdonare, gridi tra le lacrime. Le tue, le mie, si mescolano confuse. Vere, le mie lacrime. False, le tue. Scorrono da occhi strabuzzati. Le tue pupille dilatate.

Cosa hai assunto?, ti chiedo.

Nulla, giuro, nulla…  E poi:

Io ti amo, non devi credere, solo, non voglio questo figlio… Cosa sarebbe del mio matrimonio, se nascesse? Della mia carriera di ginecologo, della mia onorabilità… Cosa deve dire la gente? La mia famiglia… E poi, non sono neanche sicuro che sia mio… Io, sono sterile!

Eppure c’era. Nel mio grembo c’era, tuo figlio. Lo vedevo nell’ecografia, lì, nella mia camera gestazionale. Era lì, col suo cuoricino che pulsava. Mi parlava, da dietro il vetro del monitor, lo sentivo. Mi sussurrava:

Tienimi con te…

E tu lo hai ucciso, a mia insaputa.

Maledetta me, quando mi sono innamorata. Caparbia, mi sono intestardita. Non ho voluto vedere nulla: non la tua scelta di sposare un’altra donna, nonostante me. Non il tuo chiaro volere di tenermi come tua amante e basta, la donna di scorta con cui trascorrere ore di sesso, di passione. Mentre la tua vita ufficiale scorreva, davanti gli occhi di tutti, accanto a tua moglie, da cui non riuscivi ad avere figli…

Non hai capito che non è stato un caso, se sono stata io, a rimanere incinta di te.
Nemmeno tu, hai voluto guardare. Tutti e due, con gli occhi serrati di fronte alla verità. Tutti e due ostinati, tu a rifiutarmi come donna della tua vita, e a relegarmi ai margini di essa, avvolta dall’ombra e dal segreto; io a volerti a tutti i costi, a focalizzare la mia attenzione solo su quei baci, su quegli amplessi focosi, sulla mia attrazione incontrollabile, che ritenevo reciproca, mentre tu, lucido, mi usavi soltanto per saziare i tuoi istinti animaleschi, come se io fossi una cosa.

Maledetta, maledetta io che mi sono ostinata nel volere spremere pietre… Ora il mio grembo sanguina.

Mi arrivano dal corridoio gli squilli del telefono. Risponde la voce del medico, fredda, impassibile.

Sì, è andato tutto bene. L’aborto è andato a buon fine. Era una bambina, ti dice per tranquillizzarti. Aggiunge: Terremo la notizia nel più stretto riserbo, puoi stare sereno. Nessuno saprà…

Era una bambina. L’ho intravista, tra le lacrime che scorrevano incessanti, in sala operatoria.

Bellissima, delle dimensioni di una Barbie. Dalle gambe lunghissime, i lineamenti delicati…

Come ho potuto non proteggere lei? Non avrei dovuto dirti nulla, custodire il segreto dentro di me.

Guardare in faccia il tuo disamore, così evidente, nel momento in cui ti sei deciso a sposare l’altra. Credevo di non potere vivere, senza di te. Invece non posso vivere con te.

Tu mi distruggi, l’ho capito. Soltanto adesso, l’ho capito.

Le parole del prete, che compassionevole passa tra tutte noi piangenti in corsia, dopo la morte dei nostri figli mai nati. Si snocciolano lente, pacate, e arrivano come un balsamo alle mie ferite, mentre guardo, con il capo reclinato all’indietro, lo squallore dei muri disadorni dell’ospedale, esausta, amara. I frammenti di me, in ordine sparso. Mentre la vita mi appare ancora come un rimescolio senza costrutto.

‒ Ci crediamo fragili e ci aggrappiamo a persone con cui stringiamo legami forti come cordoni. Veri e propri cordoni ombelicali, come fossimo feti incapaci di nutrirci da noi stessi. Ma non sempre arriva nutrimento da questi imbuti di carne che si insinuano dentro di voi. Spesso si instillano gocce di veleno che, lente, uccidono. Non abbiate paura di reciderli, allora.

In fondo voi siete nate da un distacco, dal distacco dalla madre stessa che vi ha generato.

Dal taglio secco del cordone ombelicale, nasce sempre una vita nuova, anche se in mezzo alle lacrime. Non abbiate paura.

Se credete in Dio, trovate in Lui la forza per rialzarvi. Altrimenti, credete in voi stesse, nella vostra dignità di donne. Se ne parla tanto… Mettetela in atto. Abbiate dignità. Non fatevi sfruttare da chi adultera la realtà per i suoi sporchi interessi.

 Parole come sassi percuotono il mio stagno. Cerchi concentrici si dilatano nella mia anima. Decido di metterle a frutto.

Dalla finestra, mi giunge l’azzurro del cielo, così nitido, che si potrebbe bere. Vedo le cime degli alberi delle barche a vela, che si stagliano bianche. E poi il mare, con il suo infinito.

Lentamente rinasco, mentre ricompongo  me stessa.

Questo testo è stato selezionato per far parte dell’antologia “Il libro delle storie finite. Storie d’amore e di distacco” edito dalla Fusibilia, a cura di Dona Amati

(fonte immagine:web)