di Ornella Mallo 11/10/2021

Recensione di Ornella Mallo a “Il materiale emotivo” di Sergio Castellitto.

Vedendo al cinema “Il materiale emotivo”, mi sono venute in mente due citazioni tratte da due poesie di Izet Sarajlic. La prima dice:” Troppo poco tempo ho dedicato al mio amore/io che all’amore avevo consacrato tutto il mio tempo. Un’altra volta saprei incomparabilmente di più/godere la vita”. La seconda dice: “O tenerezza umana/dove sei?/Forse solo/nei libri?” In esse troviamo condensato il significato del film: nella società di oggi, il sentimento spesso viene sacrificato alla tecnologia, e la tenerezza è qualcosa di cui sono pieni i libri, ma non la vita. – “Materiale emotivo” è un ossimoro.- Così replica il protagonista Vincenzo (Sergio Castellitto) a Jolanda (Berenice Bejo), attrice in cerca di fortuna che irrompe nella sua vita, trasformandola. La donna gli aveva appena raccontato che il regista della piece in cui recitava, la mandava in giro a intervistare persone, allo scopo di raccogliere e registrare frammenti delle loro vite: il “materiale emotivo”, appunto, da portare poi sulla scena. L’ossimoro sta proprio nella discordanza tra materia ed emotività, tra raziocinio e impulso; tra tecnologia e letteratura, tra immobilismo e dinamismo. Tutte queste dicotomie, tutti questi contrasti, che poi sono parti integranti della personalità dell’uomo e si estendono giocoforza alla vita, sono i veri protagonisti di questo film, ispirato a un soggetto di Ettore Scola, che ha diretto Castellitto ne “La famiglia” e in “Concorrenza sleale”. Il soggetto si intitola “Un drago a forma di nuvola”. La sceneggiatura è dello stesso Scola, di sua figlia Silvia e di Furio Scarpelli. Il film, scritto da Margaret Mazzantini, si ambienta in una Parigi dall’atmosfera fumosa, ricostruita nel teatro 5 di Cinecittà. Più esattamente in un angolo di strada, racchiuso tra la libreria di Vincenzo e il Theatre de La Providence, che sorge di fronte. Sullo sfondo s’intravede una Tour Eiffel che, illuminandosi la sera di mille lucine, contribuisce a rendere l’atmosfera fiabesca, o, per essere più esatti, teatrale. La suggestione del teatro, di scoliana memoria, viene resa non solo dalla sceneggiatura, ma anche dal sipario, con cui si apre e si chiude il film; e dall’importanza rivestita dalla parola e dai movimenti degli attori nella narrazione dei fatti, per cui è come se il set cinematografico si trasformasse in un vero e proprio palcoscenico. L’unico punto di contatto con la realtà è dato dalle immagini che riprendono ragazze in rollerblade. Tra quelle, Albertine (Matilde De Angelis), la figlia di Vincenzo. Scivolando in una piscina vuota mentre era in rollerblade, appunto, la ragazza resta tetraplegica e perde l’uso della parola. Ma il cervelletto non viene intaccato dalla caduta. Il suo è un mutismo selettivo, ossia un mutismo di risposta al trauma che ha subito, e che viene perpetrato nei confronti di alcune persone, non di tutte. Può guarire, in sostanza, ma occorre lo stimolo giusto. Lo stimolo sarà dato proprio dall’irruzione di Jolanda nella vita di Vincenzo e Albertine: la sua comparsa determinerà un risveglio del protagonista dallo stato di torpore e di chiusura in cui versava, determinato dalla scelta di dividere la sua vita esclusivamente in due piani metaforici: il piano di sotto dell’appartamento, in cui si trovava la libreria di cui era proprietario: il suo mondo, lontano dalla realtà che rifiuta, in quanto “non c’è granché, solo qualche piccola luce e molto rumore”; e il piano di sopra, quello abitato da Albertine, cui dedica la sua vita, circondandola di attenzioni, nella speranza di farle riacquistare l’uso della parola. Il libraio, grazie all’attrice, verrà a contatto con la vita vera, che respingeva: significativo il fatto che non avesse un cellulare, simbolo di un rifiuto nei confronti di una tecnologia che massifica le persone, omologandole tra di loro. Jolanda, grazie a Vincenzo, scoprirà il mondo della letteratura che, se pure è scollato dalla realtà, ​proprio per questo contrasta con l’impermanenza, toccando l’eterno. Emblematica la frase che pronuncia il libraio, quando esalta il valore dei libri, definiti, in un altro passo del film, “piccole bare”: “La letteratura rende eterni; l’attualità ci uccide, ci folgora, ci rende fragili.” L’incontro tra queste due personalità così diverse l’una dall’altra, determinerà una trasformazione in entrambi, anche se Jolanda sacrificherà il proprio amore per sollevare Vincenzo dalla difficoltà della scelta tra lei e Albertine. Dal canto suo, la ragazza, proprio nel momento in cui Jolanda si allontanerà dalle loro vite, riacquisterà l’uso della parola. Bravissimi gli attori protagonisti, in particolare la giovanissima Matilde De Angelis, vera rivelazione del film, che con la sua mimica facciale riesce perfettamente e rendere gli stati d’animo della protagonista. Meravigliosa Berenice Bejo, che ricorda tanto la Penelope Cruz di “Non ti muovere”. Altrettanto credibili tutte le altre figure di contorno ai protagonisti, dal d.j. Clementino, che fa il barista, a Sandra Milo, onirica più che mai, in un evidente omaggio al regista Federico Fellini, che a Cinecittà ambientava i suoi film. Numerosissimi, poi, gli spunti di riflessione sollevati dalle tematiche del film, ossia il mutismo dei giorni di oggi, simboleggiato non solo dal silenzio in cui si chiude Albertine, ma anche dalla vasca con i pesci rossi che si trova nella sua stanza. Un mutismo contro cui contrasta la vitalità di Jolanda, che trascina fuori dalla sua libreria Vincenzo, riprendendolo con il suo cellulare, proprio per raccogliere il suo “materiale emotivo”. Suscita anche riflessioni sulla solitudine: memorabile la frase di Vincenzo che, parlando del proprio matrimonio, dice: “Come tutti gli uomini sposati ero solo”; sul mal de vivre tipico degli adolescenti di oggi, schiacciati come sono dall’immaturità dei genitori; sull’amore, che è dinamismo, ossia un tendere verso l’altro, a costo di sacrificare se stessi e la propria felicità: “Non sempre una rinuncia è una sconfitta”, dicono sia Vincenzo che Jolanda, sia pure in momenti diversi del film. E’ anche denso di poesia, e ricco di citazioni colte: la sera Vincenzo legge ad Albertine Calvino, Dostoevskj, Boris Vian, proprio per stimolarla a riflettere sull’importanza dell’uso della parola come strumento di comunicazione e di confronto con l’Altro. Ha anche parecchi momenti di leggerezza e di ironia, che servono a smorzare la drammaticità dei temi trattati, tutti autentici e attuali. Insomma, consiglio vivamente la visione di questo film, non foss’altro che per vedere come Castellitto affronti i temi del malessere psicologico che pervade la nostra società, e confrontarlo con gli altri registi, uno per tutti Nanni Moretti, che pure trattano le stesse tematiche.

(fonte immagine: Facebook)