RECENSIONE AL LIBRO di Maria Antonietta La Barbera

di Ornella Mallo 06/10/2021

Molto umilmente, Maria Antonietta La Barbera dice che il suo libro “La cura delle parole”non è circoscrivibile a un registro letterario definito: “Un guazzabuglio di branelli queste pagine, un alveare di parole, una rete di corrispondenze, di connessioni e di legami, alcuni chiari, altri appena suggeriti, intrecciati con invisibili ma consistenti fili tutti da slegare, riavvolgere e collegare in modo nuovo.” Sempre l’autrice riporta una citazione di Flaubert: “Non sono le perle che fanno la collana, ma il filo”. E aggiunge: “Tra i molti branelli, l’attenzione alle parole, nelle sue variegate declinazioni, sarà il filo di queste pagine”. Un’attenzione che include l’uomo, in quanto persona, di cui la parola non è che il principale strumento espressivo; e la sua esperienza di donna, di moglie, di mamma e di insegnante, poiché, parafrasando il titolo di un suo racconto, arriva “Un tempo per raccontare”: un tempo in cui si tirano le fila di quanto si è vissuto per trovarne il significato, e si punta alla ricerca di un “per”, ossia di uno scopo verso cui tendere, e cui uniformare il presente e i giorni che verranno. Significativa al riguardo la frase di Steve Jobs: “Non potete sperare di unire i puntini guardando avanti, potete farlo solo guardandovi alle spalle”. Il percorso che Maria Antonietta La Barbera si propone di seguire in questo libro è, quindi, come lei stessa scrive, utilizzando una felice espressione di Cristina Campo, un “avanzare di ritorno”: è il ripercorrere la rotta all’indietro per ritrovare il porto da cui si è salpati, così da mettersi in salvo, recuperando l’imbarcazione danneggiata, e quindi ripartire. “Non si tratta di un semplicistico ritorno a casa alla ricerca di un habitat protettivo e scontato, ma di una rivisitazione del vissuto da un’altra prospettiva, un viaggio nel profondo che ci riconduce al luogo da cui proveniamo, ma per scoprire che è lì dove siamo, nel percorso che abbiamo scelto, che possiamo ritrovarci. E’ quello il “luogo” dell’esserci, dell’essere”. Il profondo di noi stessi. Nella società di oggi, tutta imperniata sulla non-cultura dell’usa e getta, le profondità interiori vengono opportunamente evitate, perché spaventano: non permettono di scivolare di rapporto in rapporto, alla ricerca di emozioni epidermiche sempre nuove, che però si rivelano sempre uguali a se stesse, e perciò generative di un sentimento di inquietudine e di scontentezza. Bernanos, uno dei maestri citati dall’autrice, individuava proprio nella superficialità il male cui imputare la crisi dei valori dei giorni d’oggi. Scriveva infatti: “Non si capisce nulla della civiltà moderna se non si comprende che si tratta di una cospirazione universale contro ogni forma di vita interiore”. E ancora: “Molti uomini non impegnano mai il loro essere, la loro sincerità profonda. Vivono alla superficie di se stessi. Gettatevi dunque in avanti quanto vorrete, occorrerà che un giorno la muraglia ceda, e tutte le brecce si aprono sul cielo.” Maria Antonietta La Barbera osserva che “Vivere alla superficie di se stessi” è il grande male, perché determina il processo di de- creazione. Di annientamento dei valori dello spirito, inteso in tutte le sue declinazioni.” Il sintomo più evidente della malattia che affligge la società di oggi, è l’uso inappropriato della parola, per cui si può parlare di una vera e propria pandemia, o di una panspermia di questo terribile virus, ben più grave del coronavirus di cui tanto si parla in questi giorni, perché conduce alla morte dell’anima, impedendo agli uomini un dialogo costruttivo di relazioni e di ponti tra di loro. Scriveva Thomas Merton che “Nessun uomo è un’isola”, sottolineando così l’importanza delle relazioni quando sono vere, autentiche, prive di “pelli morte” che si ispessiscono diventando vere e proprie “corazze che separano dagli altri”. L’autrice riporta Ionesco: “La parola non rivela più. La parola chiacchiera. La parola è letteraria. La parola è una fuga. La parola impedisce al silenzio di parlare. La parola assorda. La parola consuma il pensiero. Lo svilisce. La garanzia della parola deve essere il silenzio. Ahimè! Che civiltà! E’ l’inflazione della parola.” E ancora: “Avrei voluto riempire il vuoto con l’essere”, proprio per sottolineare come l’uso di parole vuote, prive di ideali, piene di materia, non fa che generare non un popolo di persone, ma un mucchio informe, all’interno del quale gli uomini non sono che fotocopie insignificanti di se stessi, e non circolano che degli slogan. Cita anche Sulivan, da lei definito “romanziere delle profondità”: “Uomini che nella testa non hanno che idee, interessi da difendere. Senza essere interiormente liberati, finiscono sempre con l’aggravare l’impostura”. Ecco quindi l’invito a riscoprire il “linguaggio dell’infanzia”, come lo chiamava Bernanos, ossia quel linguaggio che sgorga dalle acque limpide site nelle nostre profondità più recondite. Solo così, adoperando un linguaggio che nasce direttamente dal nostro cuore, sarà possibile operare una rivoluzione in noi stessi, intanto, e nella società che noi stessi componiamo, in una fase successiva. “Io, una sola persona posso cambiare durante la mia esistenza, me stesso”, diceva Bernanos. E Turoldo: “Ricondurre la mente al centro del cuore dove finalmente celebrare l’incontro.” E del resto, il titolo dell’opera di Maria Antonietta La Barbera parla chiaro: “La cura della parola”, dove cura rinvia a “cor = cuore, e in particolare all’espressione “quia cor urat” = perché scalda il cuore, ossia lo sollecita e lo coinvolge.” Oppure rinvia “alla radice sanscrita ku, che vuol dire osservare, stare in guardia. La scelta di prendersi cura richiede la reciprocità di una relazione che implica […] il ricordarsi = portare nel cuore, abitare l’altro”. Quindi l’uso appropriato della parola, la ricerca della parola giusta, consolatrice, aurorale, parlante, non può che portare ad un mondo migliore, un mondo in cui si intrecciano in solide trame relazioni profonde, amicizie nel senso più nobile del termine. L’autrice cita al riguardo Saint-Exupery: “Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici”. Eviscera, dunque, la parola in tutte le sue potenzialità, iniziando dalla parola parlata nel linguaggio quotidiano, fino ad arrivare alla parola poetica e alla parola-preghiera: il libro infatti è pregno dell’alta spiritualità dell’autrice, e della sua enorme fede in Dio. Cita in più passi il Vangelo di Matteo 8,8: “Dimmi una sola parola e io sarò guarito”. Scrive: “Al posto della parola che salva, ecco il blaterare vano dei borghesucci intercambiabili, il soliloquiare dei politici, il delirio angosciante di coppie che, pur abitando nella stessa casa, non hanno mai fatto l’esperienza di una comunicazione vera.” E invita a un uso appropriato anche del silenzio, contrapposto al mutismo dei giorni d’oggi: un silenzio parlante con la stessa efficacia delle parole, cui si intercala. Anzi il silenzio sgorga dagli interstizi esistenti tra parola e parola: “Il silenzio è il colore degli avvenimenti: può essere leggero, spesso, grigio, allegro, vecchio, impalpabile, triste, disperato, felice… Se lo ascoltiamo ci parla.” Cura della parola, dunque; ma anche cura della persona e dello sguardo rivolto all’altra persona, quella fuori di noi ma che ci abita; e cura di noi stessi. Lo sguardo di Maria Antonietta, alla fine del libro, si ripiega sulla sua persona: ma non col fine di un solipsistico autocompiacimento, ma per ritrovare il porto da cui è salpata all’inizio della sua navigazione, alla ricerca del suo “per”, ossia del senso della sua esistenza, che sintetizza in questa frase: “Se dovessi individuare uno dei tratti più significativi del mio percorso umano, potrei dire che è sempre stata una ricerca, un cammino ininterrotto nella speranza di una parola.” E aggiunge: “Possiedo un tesoro. La mia storia. Un’acqua viva che nessuno potrà mai inquinare né privatizzare. E’ sempre stata e sempre sarà un’acqua per tutti, ma oggi deve anche essere un’acqua per me, vitale e salutare in questo nuovo tempo da abitare. Ho continuato a strappare, impietosa, pelli morte, maschere accattivanti, a volte così comode per difendersi dai predatori… E sono rimasta nuda. Nuda e vera. Tanta leggerezza mi rende assai fragile… ma solo così potrò davvero volare. Il mio centro di gravità non è più soltanto nel cuore degli altri, ma anche verso il mio io. Nel cuore di Dio.” Nell’analisi attenta delle potenzialità della parola, rientra la scrittura. Scrivere le parole che ognuno di noi trova dentro se stesso, ripercorrendo la propria vita, e cercando di illuminare tutte le proprie zone di ombra, non è che una grande opportunità: è una terapia catartica, se vogliamo, liberante di tutte le sovrastrutture che ci imprigionano, chiudendo i polmoni del nostro cuore e della nostra mente, rendendoci tutti uguali tra di noi, uomini- fotocopia. Nella società del copia e incolla, la salvezza è rappresentata dalla parola creatrice, non copiata, innovativa. Ed è a questo scopo, che proprio Maria Antonietta La Barbera, con l’associazione Partecipalermo, ha dato vita a corsi di scrittura creativa, in cui ha accolto persone adulte ingrigite dalla difficoltà di comunicazione che riscontravano nel vivere di ogni giorno. Di questa esperienza parla, come del suo operato come professoressa di letteratura francese al Magistero di Palermo. Così come racconta delle persone che ha incontrato nella sua vita, alcune segnandola al punto da divenire tasselli del mosaico della sua personalità. Scrive: “ Le mie mani vuote possono oggi stringere anche i ricordi dolorosi senza sanguinare troppo. E sono più libera di leggere e scrivere, in ogni giornata, quella vita eterna che è possibile vivere già da oggi, finalmente riconciliata con me stessa.” Consiglio dunque la lettura del libro “La cura delle parole”, in quanto lo trovo coraggioso, in un’epoca come la nostra, in cui non si parla più, ma si offende, ovvero si tende ad usare una parola manipolatrice, che soverchia l’altro allo scopo di succhiarne l’anima, per poi buttarne la buccia, come fosse un mollusco. Un libro dalla profonda spiritualità, che potrebbe essere utile per risvegliare coscienze dormienti in bare trasportate dalla corrente verso il nulla. Ma il nulla rassicura?