di Tommaso Gioietta

 

L’ambiente di lavoro non è solo un luogo fisico ma soprattutto un luogo emotivo perché in esso si concentrano umori, sensibilità, culture differenti. Anche se il benessere psicofisico nei luoghi di lavoro e gli aspetti emotivi e motivazionali delle attività lavorative vengono sempre più considerati come fattori strategici sia per l’organizzazione sia per la gestione delle risorse umane, spesso molto persone si imbattono in situazioni di vessazione sul posto di lavoro.

La sensibilizzazione nei confronti della tematica del mobbing è necessaria per offrire strumenti utili e strategie efficaci al fine di scardinare tutti quei comportamenti negativi che si traducono in attacchi alla dignità di chi lavora con gravi conseguenze a livello psichico, fisico, morale ed esistenziale, fino ad arrivare, in casi estremi, anche al suicidio. Anche l’azienda, oltretutto, ha delle ripercussioni, che si traducono in calo della produttività, spese legali, danno all’immagine, etc.

Le condotte vessatorie e mobbizzanti, oltre a causare disagio psichico nelle vittime, causano un’alterazione negativa nei rapporti sociali, familiari e interpersonali con un conseguente peggioramento della qualità di vita.

L’interesse per il mobbing è nato in Svezia dove è stato teorizzato un fenomeno di cui se ne avvertiva inconsapevolmente la presenza nel mondo del lavoro, grazie ad un gruppo di studiosi coordinati dallo psicologo tedesco Heinz Leymann. Il termine mobbing deriva dal verbo inglese to mob che significa “assalire, accerchiare, aggredire, affollarsi attorno a qualcuno”. Il termine to mob deriva, a sua volta, dall’espressione latina mobile vulgus, che indica il movimento della gentaglia che aggredisce qualcuno.

Leymann agli inizi degli anni Ottanta si dedicò allo studio del conflitto presso le organizzazioni e chiamò mobbing quei comportamenti aggressivi sul posto di lavoro. Con la prima pubblicazione scientifica del 1984 è stato formalizzato l’uso del termine mobbing, quale forma di vessazione esercitata nell’ambito lavorativo ed il cui risultato è l’estromissione della vittima dal mondo del lavoro. Una prima definizione di mobbing dice che «il terrore psicologico o mobbing lavorativo consiste in una comunicazione sistematicamente ostile e non etica, da parte di una o più persone, diretta generalmente a un singolo che si viene a trovare privo di appoggio e difese a causa  delle continue attività mobbizzanti». Queste azioni si verificano con una frequenza di almeno una volta alla settimana e su un lungo periodo di tempo di almeno sei mesi.

In poco tempo, il concetto di mobbing ha avuto diffusione in molti Paesi del nord Europa mentre in Italia il fenomeno ha cominciato ad assumere rilevanza solo più tardi.

In Italia il termine mobbing fu introdotto dallo psicologo Leymann che nel corso di una conferenza a Milano mutuò il termine coniato nel 1963 dall’etologo Konrad Lorenz per descrivere la condizione lavorativa di attacco, di aggressione sistematica nei confronti di una vittima designata, traendo spunto dalla descrizione di Lorenz che descriveva il comportamento di alcuni animali che si coalizzavano contro un membro del gruppo, lo attaccavano, lo isolavano, lo escludevano dal gruppo, lo malmenavano fino a portarlo anche alla morte.

Leymann (1993) ha definito il Mobbing o Terrore psicologico sul posto di lavoro come «quella forma di comunicazione ostile ed immorale diretta in maniera sistematica da uno o più individui (mobber o gruppo di mobber) verso un altro individuo (mobbizzato) che si viene a trovare in una posizione di mancata difesa». Queste azioni sono effettuate con un’alta frequenza (almeno una volta alla settimana) e per un lungo periodo di tempo (per almeno sei mesi).

Altresì, Leymann sottolineò che i fattori di personalità non erano rilevanti nel determinare il mobbing in quanto erano le condizioni di lavoro e i fattori organizzativi la causa del fenomeno.

Il mobbing, quindi, è da imputare all’organizzazione del lavoro e all’inadeguata gestione dei conflitti organizzativi da parte dei responsabili aziendali.

In Italia gli studi sul mobbing si sono diffusi poi maggiormente solo a partire dal 1996 quando Harald Ege, psicologo del lavoro, oggi considerato uno tra i massimi esperti di mobbing, ha iniziato ad importare nel nostro paese le conoscenze europee sul mobbing traducendo ricerche e pubblicazioni. Ege inoltre ha fondato proprio in Italia  l’Associazione PRIMA – Associazione Italiana contro Mobbing e Stress psico-sociale.

Ege definisce il mobbing «una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità. Il mobbizzato si trova nell’impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo andare accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell’umore che possono portare anche a invalidità psicofisica permanente».

L’elemento evidenziato da entrambi gli studiosi è quello dell’aggressione psicologica in campo lavorativo, protratta per un lasso di tempo significativo, che produce sulla vittima uno stato di profondo disagio e talvolta la compromissione dello stato di salute.

Ege ha elaborato un modello particolare che si compone di sei fasi, precedute da una sorta di pre-fase, detta Condizione Zero, che ancora non è mobbing, ma che ne costituisce l’indispensabile presupposto. Le sei fasi sono: 1) il conflitto mirato, 2) l’inizio del mobbing, 3) primi sintomi psico-somatici, 4) errori ed abusi dell’amministrazione del personale, 5) serio aggravamento della salute psicofisica della vittima e 6) esclusione dal mondo del lavoro.

Ege, inoltre, sulla base della ricerca empirica (oltre 3000 casi analizzati personalmente), è giunto all’individuazione di sette parametri oggettivi e scientificamente accettabili che permettono una valutazione rigorosa e sicura della presenza del Mobbing e quindi la quantificazione del danno della vittima ai fini giuridici risarcitori:

Ambiente lavorativo: la vicenda di lavoro deve svolgersi sul posto di lavoro.

  • Frequenza: le azioni ostili devono accadere almeno alcune volte al mese.
  • Durata: il conflitto deve essere in corso da almeno sei mesi; almeno tre mesi nel caso del Quick Mobbing, ossia di attacchi particolarmente frequenti ed intensi.
  • Tipo di azioni: le azioni subite devono appartenere ad almeno due di cinque categorie: 1) attacchi ai contatti umani e alla possibilità di comunicare; 2) isolamento sistematico; 3) cambiamenti nelle mansioni lavorative; 4) attacchi alla reputazione; 5) violenze e/o minacce.
  • Dislivello di potere tra gli antagonisti: la vittima è in posizione costante di inferiorità ed è resa incapace di difendersi dalle strategie di attacco usate dell’aggressore.
  • Andamento secondo fasi successive: la vicenda ha raggiunto almeno la fase in cui il conflitto si è incanalato nella direzione di una determinata vittima o gruppo di vittime, che cominciano a percepire l’inasprimento delle relazioni interpersonali e un crescente disagio psicologico.
  • Intento persecutorio: nella vicenda deve essere riscontrabile un disegno vessatorio coerente e finalizzato, chiaramente ostile e negativo come:

– allontanare la vittima dal posto di lavoro,

– metterlo in cattiva luce,

– bloccargli la carriera,

– isolarlo,

– metterlo in ridicolo,

– punirlo per qualcosa di cui lo ritiene responsabile.

Il mobbing implica il coinvolgimento di diversi attori come l’aggressore, denominato mobber, la vittima, denominata mobbizzato e gli individui che fanno da spettatori chiamati side-mobber, se si schierano apertamente per una delle parti, o whistleblower, se denunciano situazioni di illegalità.

Il mobber è colui che, in maniera sistematica e con modalità subdole, esercita violenza psicologica e morale su una vittima mediante aggressioni verbali, critiche, minacce, maldicenze, con l’obiettivo di indurlo a licenziarsi o esautorarlo dalle sue mansioni oppure solamente per isolare una persona o per divertimento.

Il mobbizzato è la vittima del mobbing, l’oggetto delle persecuzioni da parte del mobber o dai co-mobber che, in modo sistematico, lo umiliano, l’offendono e lo ridicolarizzano. Il lavoratore viene svuotato di contenuti, criticato, declassato, messo in discussione per quanto riguarda le sue capacità personali e professionali, ostacolato e sabotato. La vittima, in questo processo, si sente discriminata e può avere conseguenze sulla sua salute e sulla sua vita sociale.

Le figure satellite sono tutti quei soggetti non direttamente coinvolti nel mobbing ma che lo vivono di riflesso, divenendo spettatori neutrali o bystander, oppure schierandosi a favore dell’uno o dell’altro e assumendo un ruolo attivo. In particolare i bystander:

  • isolano la vittima;
  • vivono la situazione male con il rischio di riportare conseguenze negative sul proprio stato di salute;
  • si possono sentire impotenti.

I side-mobber sono coloro che affiancano i mobber nell’azione vessatoria mentre i whistleblower sono coloro che cercano di aiutare la vittima.

Un’altra figura coinvolta nel fenomeno del mobbing è il mandante, ossia colui che pianifica le strategie mobbizzanti eseguite poi dal mandatario, che è l’esecutore  delle azioni mobbizzanti.

Il mobbing inoltre ha ripercussioni gravissime anche nella vita privata e familiare. Il fenomeno denominato doppio-mobbing indica la situazione in cui la vittima si viene a trovare bersagliata nel posto di lavoro e privata della comprensione e dell’aiuto della famiglia. Nella ricerca europea non si trova traccia di doppio-mobbing, questo fenomeno  infatti è  legato all’importante ruolo che la famiglia ricopre nella nostra società.

In Italia, il legame tra individuo e famiglia è molto forte; la famiglia partecipa attivamente alla definizione sociale e personale dei suoi membri, si interessa del loro lavoro, della loro vita privata, della loro realizzazione e dei loro problemi: virtualmente non scompare mai dall’esistenza dei suoi componenti: si fa da parte, forse, ma è sempre presente a fornire consigli, aiuti, protezione conseguentemente, possiamo ipotizzare che, in linea generale, la vittima di una situazione di mobbing tenda a cercare aiuto e consiglio a casa. Qui sfogherà la rabbia, l’insoddisfazione o la depressione che ha accumulato durante una giornata lavorativa passata sotto i colpi del mobber. La famiglia così assorbirà tutta questa negatività, cercando di dispensare al suo componente in crisi quanto più ha bisogno in termini di aiuto, protezione, comprensione, rifugio ai propri problemi. La crisi porterà però necessariamente ad uno squilibrio dei rapporti. Se questo avviene, la situazione della vittima di mobbing crolla. La famiglia protettrice e generosa improvvisamente cambia atteggiamento, cessando di sostenere la vittima e cominciando invece a proteggere se stessa dalla forza distruttiva del mobbing. Ciò significa che la famiglia si richiude in se stessa, per istinto di sopravvivenza, e passa sulla difensiva. La vittima infatti è diventata una minaccia per l’integrità e la salute del nucleo famigliare, che ora pensa a proteggersi prima, ed a contrattaccare poi.

Si tratta naturalmente di un processo inconscio: nessun componente sarà mai consapevole di aver cessato di aiutare e sostenere il proprio caro.

La vittima di mobbing quindi subisce un danno: fisico, psicologico, esistenziale, finanziario e personale il cui esito ultimo, e non raro, purtroppo è il suicidio.

La diagnosi di mobbing è molto complicata poiché il mobbing non è rappresentativo di una patologia ma fenomenologicamente risulta codificato e ben descritto a livello di comportamenti, di sintomi e di possibili danni. I sintomi possono essere di carattere cognitivo e/o emotivo, hanno un evidente impatto negativo sulle capacità di gestione della quotidianità e non possono essere riconducibili ad alcuna pregressa sindrome ma solo ed esclusivamente all’ambiente di lavoro.

A seguito di intense e gravi violenze psicologiche subite nei luoghi di lavoro spesso ci troviamo di fronte alla diagnosi di Disturbo dell’Adattamento, di Disturbo Post-Traumatico da Stress, di Sindrome DAP  o di attacchi di panico, ma anche a forme di depressioni gravi, a vissuti di depersonalizzazione ed a scompensi psicotici con gravi danni alla persona e con una  correlazione elevata con casi di suicidio.

Ege sulla base dei dati raccolti ha sperimentato il cosiddetto Metodo Ege per la determinazione del mobbing e la quantificazione del danno da mobbing, pubblicato per la prima volta nel 2002 e ormai riconosciuto da vari Tribunali. Il Metodo Ege è il primo esperimento in assoluto di tabellazione matematica per il risarcimento del danno da mobbing che consente all’esperto di Mobbing di riconoscere o meno la presenza del mobbing in una vicenda lavorativa e successivamente di calcolare il grado di lesione da essa derivatene.

A livello organizzativo, la prevenzione dovrebbe essere attuata, oggi e subito, con azioni di sensibilizzazione ed informazione, ricerca e formazione. La salute del lavoratore è un bene di interesse collettivo che dovrebbe essere istituzionalmente salvaguardato e tutelato e ci sono una serie di strategie che i datori di lavoro dovrebbero adottare per evitare in prospettiva i problemi di mobbing:

  • introdurre politiche e procedure che spieghino in modo non equivoco che il mobbing è inaccettabile;
  • svolgere azioni di formazione del personale incentrate sulle responsabilità verso le persone con cui si lavora;
  • incoraggiare una cultura aziendale che promuova la dignità sul lavoro in una cultura in cui si consultano i lavoratori e si discutono i problemi;
  • osservare procedure corrette per trattare con prontezza i reclami dei lavoratori;
  • stabilire degli standard comportamentali da comunicare a tutto il personale per favorire la piena consapevolezza dei colleghi sulle reciproche responsabilità;
  • rendere noto al personale che i reclami per mobbing, saranno trattati in modo corretto, confidenziale e con l’adeguata sensibilità;
  • controllare l’applicazione di tutte le politiche e sottoporle periodicamente a revisione.

In conclusione, il mobbing, affrontato in una logica di prevenzione, costringe a ripensare il modo di gestire le risorse umane, ad eliminare i fattori di incertezza e di precariato nell’ambiente di lavoro, a porre attenzione al benessere organizzativo in generale. Tutti elementi questi che incidono sul benessere psichico del personale, ma anche sulla motivazione e sulla produttività.

 

fonte immagine: web