di Ornella Mallo 21/06/2022

Scriveva Pier Vittorio Tondelli che la “letteratura non deve proporre, ma deve indagare”.

Chi scrive deve esplorare innanzitutto la propria interiorità, rovistare dentro sé stesso per portare

alla luce tutto ciò che di più intimo si depone sul fondo dei propri abissi, trovando nell’ombra un

sicuro nascondimento. Impietosamente, invece, lo scrittore rende visibile l’invisibile, dà ad esso

parole, per evitare che le ferite si incistino diventando madide di pus, fino a incancrenirsi.

“Chi canta sulle sponde del foglio? / Chino, bocconi sul fiume / di immagini, mi vedo, lento e

solo, / da me stesso allontanarmi: lettere pure, / costellazioni di segni, cesure / nella carne del

tempo, oh scrittura, / rigo nell’acqua!” Così scriveva Octavio Paz, in “Archi – A Silvina Campo.” E

Antonia Pozzi: “Poesia, mi confesso con te / che sei la mia voce profonda.”

La poetessa Monia Gaita sposa questa visione della scrittura, in particolare della poesia, facendone

un momento di verità in cui, discostandosi da qualsiasi condizionamento che potrebbe falsare

l’approccio alla realtà delle cose, l’autore resta solo con se stesso e si rivela in tutta la sua fragilità.

Del resto, il titolo della sua ultima silloge “Non ho mai finto” è emblematico: l’autrice non è capace

di fingere, e da ogni suo verso, nelle prime due sezioni, trasudano gli annaspamenti, i rimorsi per gli

sbagli commessi, i conflitti interiori, e le difficoltà che attraversa nella ricostruzione di sé stessa

dopo l’abbandono da parte di un “tu” cinico e insensibile cui si rivolge.

Significativi i primissimi versi della poesia che apre la silloge, intitolata “Provo a dimenticarti”:

“Ho il cuore diroccato. / Si è spento tra le braccia / di quest’altra delusione / all’improvviso. / Provo

a dimenticarti, a ritornare sull’argine maestro / delle solite abitudini.”

Leggendo le poesie che compongono le sezioni “Il ciclo del sentire” e “Confluenze”, mi sono venuti

in mente i famosi versi di Anna Achmatova: “Come dimenticare? […] / Corsi senza sfiorare la

ringhiera, / corsi dietro di lui fino al portone. / Soffocando, gridai: «È stato tutto / uno scherzo.

Muoio se te ne vai». / Lui sorrise calmo, crudele / e mi disse: «Non startene al vento.» “

Il controcanto della Gaita: “Non ho mai smesso di amarti. / Certo, fui brava a descrivere / un arco di

finzione / quando spavalda ti dissi: «Ti prego, / non chiamarmi più. Lasciami andare!»

La passionalità che intride i versi della Gaita ricorda non solo la Achmatova, ma anche la Cvetaeva:

e del resto anche lei asseriva che “ogni verso poetico deve rivelare la verità dell’istante”.

Nella poesia “È tardi” della poetessa originaria di Montefredane, provincia di Avellino, leggiamo: “E le radici del tuo nome si avvitano al mio sangue. / Tu appendi la lavagna della fretta a un telaio: / «È tardi – dici

– devo andare». E nella poesia “L’impalcatura” leggiamo: “Hai deciso di andare. / Non devo

insistere, non devo dire niente. / […] Eviterò di piantarmi nelle cose / troppo a fondo / e metterò le

cicatrici ad asciugare / con il coraggio della volta prima.”

In “La dedica”, il drammaturgo Botho Strauss del protagonista dice: “È proprio questo che chi è

stato abbandonato non vuole fare del suo dolore: metterlo da parte, o soffocarlo, o addirittura

rinunciarvi. Certo la donna scomparsa non gli è mai stata così vicina come ora che ne sente così

vivamente la mancanza.” Nei versi della Gaita rileviamo lo stesso stato d’animo descritto da 

Strauss. In “Potessi almeno” leggiamo: “Ha fatto sangue l’assenza di te. / Dilata e infiamma i

piccoli vasi / intorno alla ferita / Oggi mi manchi. / Scovo sotto le foglie ciò che fummo, / succhio la

linfa di quello che rimane. / “

Lo psicoanalista Igor Alexander Caruso affermava: “Il problema della separazione è il problema

dell’irruzione della morte nella coscienza umana, non in senso figurato, ma concreto e letterale.

Non muore solo l’altro che si allontana, ma si assiste alla propria morte nel cuore della persona

amata.”

Ma se da un lato si assiste alla morte del sé, dall’altra parte si scorge il processo di ricostruzione,

anche se faticoso. E la volontà di delineare la sagoma di una donna nuova, completa nella sua ​

identità, non monca, ma integra, emerge nella poesia “Accade”, in cui scrive: “Arriva sempre in

ritardo alzarsi / e rimontare, / nel fronte della sopravvivenza, / sul cavallo, / rimuovere la salma

degli sbagli, / scorgere un ancoraggio accidentale, / rendere grazie al mondo.” Oppure, in “Un

piccone” leggiamo: “E per fortuna / raccatto un truciolo ancora di mattoni: / vestire ogni caduta di

coraggio, / accumulare raffiche di forza nella neve. / “

Nella terza sezione, intitolata “A colloquio coi luoghi” la poetessa rivolge lo sguardo all’Irpinia, sua

terra d’adozione. È uno sguardo accorato quello che rivolge al paese di Montefredane, di cui invita

a “salvare il corpo”. Un nodo saldamente intrecciato alle sue radici, anche se è stata costretta ad

allontanarsi. “Sono partita, ma non dimentico l’Irpinia”, scrive. “Tanta aderenza alle fratte e al

cielo, / la lussazione di chi è andato, / la liquida matrice del contatto / che difendo. / Siamo due

pezzi della stessa stoffa.”

E la sua poesia, da canto intimo, si slarga fino a diventare un canto politico, nel senso nobile della

parola, non inginocchiato di fronte a ideologie del momento, ma che ha a cuore il destino dei

terremotati dell’Irpinia, di cui mette in risalto il dolore e la sofferenza per una condizione disagiata

che perdura ancora oggi.

Leggiamo infatti: “Fa male guardare il vuoto indefinito / alle ringhiere, / scioglierlo lentamente

sulla lingua / come un bacio.” E leva un canto di dolore per il “suo” Sud, un Sud le cui spalle sono

ingobbite dalle troppe dominazioni subite nel tempo, e dalla cattiva gestione operata da una classe

politica impunita, che non mantiene le sue promesse. Scrive: “Oggi guardo la morte del mio Sud, /

col sudore del tedio che rovista il coraggio / a palmo a palmo. / Oggi tutto sa di ingiuria e

insufficienza.”

Il linguaggio della poetessa è molto curato, anche se non ridondante. Non minimale, anzi ricco di

figure retoriche che impreziosiscono il testo. Rileviamo, per esempio, l’uso di anafore in molte sue

poesie, così da assicurare un certo ritmo ai versi, e al tempo stesso dare risalto  ai contenuti,

soprattutto nella svolta politica dell’ultima sezione.

La sua poesia, sebbene carica di amarezza per la constatazione di una realtà dura e deludente, apre il

fianco alla speranza. E se da un lato la poetessa piange per la fine di un amore, dall’altra individua

un “tu” che può rappresentare un appiglio, pur mantenendo una condizione di indipendenza. Un tu

che la completi nella vita quotidiana, ma che non la soverchi.

E così pure, nella parte della silloge in cui la poetessa dà spazio all’impegno civile, se da una parte

lo sguardo rivolto al Sud è affranto per le condizioni in cui versa, dall’altra la poetessa scorge una

possibilità di recupero.

Significativi i versi con cui conclude la silloge: “Quando la gioia ti muore sulle labbra / come una

parola, / devi nutrirti di quello che rimane / nel cestino, / difendere il “ti amo” che imparammo / in

epoche remote, / ruotare attorno al fulcro dei viventi, / continuare.”

Bellissimo questo “continuare” posto a solo, come ultimo verso, che dà il segno di una ripresa che

avanzerà inesorabile.

Monia Gaita, con la sua silloge, si conferma essere un tassello al prezioso mosaico che testimonia il

fermento della poesia femminile in questi anni di crisi e di caduta dei valori.

Il futuro è donna, senza ombra di dubbio.

(fonte immagine: L’ombra delle parole. wordpress.com)

Monia Gaita POESIE SCELTE da “Madre terra” “Dal niente”, “Mio padre” “Mi  mancherà”, “In questa terra”, “Sono lontana”, ” Io straripai”, “Io non so  come accadde” (Passigli, 2015) con un Commento di