Arrivo, sono le 19,45. So che il collega del pomeriggio sarà felice di vedermi, come quando giocavamo a nascondino da bambini e urlavamo: liberi tutti!

Io, ovviamente, sono di tutt’altro umore, la reperibilità pomeridiana mi ha preparato alle difficoltà del reparto e so già cosa troverò. So già che abbiamo in reparto un paziente con diabete scompensato in un piano e un paziente con sepsi in un altro. Sì due piani diversi, ma non solo, c’è di peggio. Gestisco personalmente, come ogni collega di guardia pomeridiana o notturna, più di quaranta pazienti.

Ma non ci sono ricoveri nuovi! mi ha detto l’altro giorno la mia amica nefrologa. Ma che dici? Certo che sì! Finché c’è posto letto c’è speranza! Ma noi non siamo medici di pronto soccorso, e le nostre problematiche non interessano nessuno, che in reparto ci siano quaranta malati con patologie complesse, da respiratorie a infettive, con un solo medico di guardia non fa notizia.

Mi cambio, inizio a lavorare.  Mi accoglie un nuovo ricovero da vedere al secondo piano, una polmonite, mentre vado verso la medicheria, ringrazio il cielo: questa è facile. Ho visto di molto peggio. Visito il paziente e parlo con lui, circa mezz’ora, poi stampo la cartella, faccio firmare il foglio del trattamento dei dati personali, faccio firmare il retro della cartella e lo firmo, per l’accettazione della terapia, compilo il foglio del dolore, scrivo la visita in cartella, prescrivo gli esami e la terapia in cartella, ricopio la terapia nell’apposito foglio, prescrivo gli esami al computer. Stavolta mi grazia e si blocca una sola volta. Ho perso altri quaranta minuti. Per fortuna a chiamare la squadra per portare gli esami urgenti al laboratorio ci pensano gli infermieri. Ovviamente il risultato degli esami urgenti li avrò tra oltre due ore. Pazienza, se dovrò modificare qualcosa lo farò dopo.

Squilla il telefono, corro al piano di sopra, c’è un paziente con una convulsione, la sua prima volta. I parenti urlano, fuori controllo. Io mi precipito verso il paziente, lo metto in posizione laterale di sicurezza, chiedo, interrogo, indago le cause, mentre i parenti gridano in preda al panico e io li intimo di calmarsi e di farmi lavorare; capisco che la crisi non tende a risolversi da sola, il paziente desatura, decido che è meglio agire, in tutto avrò impiegato tre minuti. Suona il telefono, il paziente con il catetere ha la febbre alta. Oddio, sarà una sepsi da catetere? Non posso muovermi, arrivo appena posso. Fate l’emocoltura e i prelievi di routine, poi vi faccio la richiesta.

 

Il paziente con le convulsioni lentamente si calma, smette di scuotersi, trama debolmente e si addormenta. Non ho il tempo di rispondere alle mille domande che mi fanno i parenti, ho il paziente con la sospetta sepsi che mi aspetta e ancora devo scrivere tutto quello che ho fatto e la terapia in cartella. Intanto sono passati altri dieci minuti.

Vado nell’altro reparto a vedere il paziente con la febbre, lo visito da cima a fondo e sì, può essere una febbre da catetere, non c’è altro motivo per cui abbia 39 di temperatura. Faccio la richiesta degli esami e la consegno agli infermieri.

Non sono del tutto a posto con i miei pensieri… Il paziente con le convulsioni, primo episodio, non sarà il caso di fare una TAC? Chiamo il neuropsichiatra. Ovviamente per adesso non può venire a vedere il paziente perché sta facendo una consulenza per il pronto soccorso ma mi dice: “Fai la richiesta online”. Perfetto. Grazie. Mi siedo al computer per fare la richiesta, suona il telefono. Ricovero, nell’altro padiglione. Vado, abbastanza in pensiero perché vorrei tornare dal paziente con le convulsioni. Anemia, arriva per pallore. Al pronto soccorso hanno fatto gli esami, devo trasfonderlo. Chiedo, indago, cosa possa essere successo: farmaci? infezioni? perdite? No, niente di tutto questo, ma ha mangiato fave secche. Meno male, allora forse è “solo” fabico. Mai mangiate prima? Sì, ma stavolta ne ho mangiate assai. Richiedo il sangue alla banca del sangue e altri esami. Di nuovo: cartella, firma, ma stavolta c’è pure il consenso alla trasfusione, decidi terapia, copia terapia, foglio dolore, scrivi esami al computer. Ho impiegato almeno un’ora.

Oh mamma! Non ho ancora visto il paziente col diabete scompensato! Cambio piano e padiglione, ormai è notte e lui dorme, pazienza, devo vedere come sta, lo chiamo delicatamente, niente. Lo tocco, niente, cazzo, cazzo. Non è che è in coma e qua pensiamo che stia dormendo? I pazienti diabetici con scompenso grave sanno fare questo e altro! Gli pizzico il braccio per esercitare uno stimolo doloroso. Si sveglia e anche incazzato! Mi scusi, volevo sapere come sta, sfodero il mio migliore sorriso, ma comincio a non farcela più. Dagli insulti che mi rivolge capisco che è ben orientato nel tempo e nello spazio. Niente coma, torni pure a dormire.

Saranno arrivati gli esami del primo paziente che ho ricoverato un’eternità fa? No, guardo l’orologio, erano solo quattro ore fa. Controllo al computer. Sono arrivati. Ha il sodio bassissimo. Devo modificare la terapia.  E rifare un prelievo tra tre-quattro ore. Cerco gli infermieri, ma sono impegnati ad aspirare le secrezioni di un paziente cerebropatico. Ci siamo tutti così abituati, che non me lo hanno neanche detto. Li vedo esausti. Non si sono fermati un attimo e so che la loro faccia è la mia. Stessa espressione avvilita. Spiego la situazione. Scrivo la terapia, la copio, spiego al paziente, che si lamenta perché deve ripetere il prelievo, come se per me fosse un divertimento. Mi siedo al computer, prescrivo gli esami. Si blocca la stampante. La stampante è centralizzata e devo attraversare ogni volta tutto il corridoio. Manca la carta. Non nella stampante, in reparto. Salgo al piano di sopra. Vado all’altro computer, ma ho dimenticato di fare il logout in quello del piano di sotto e non posso accedere al mio account per richiedere gli esami. A questo punto urlo. Vado a prendere la carta e torno giù a scrivere gli esami. Fatto.

E il paziente con le convulsioni?  e il neuropsichiatra? e il sangue?

Torno dal paziente con le convulsioni. Tutto tranquillo, ma il neuropsichiatra non si vede. Lo richiamo. Mi dice: sono in rianimazione. Senti, fagli la TAC. Torno dal paziente, che a questo punto dorme beato, complice il farmaco che gli ho dato prima. Mi attanaglia un dubbio mentre squilla il telefono per l’ennesima volta. Lo sveglio o lascio perdere e la TAC la fa al mattino, ormai tra due ore? Mi sembra più sensato, ma mi tormento. Intanto rispondo al telefono. La banca del sangue mi informa che non c’è abbastanza sangue, me ne può dare un quarto di quello richiesto. D’accordo, meglio che niente.

Risuona il telefono. Gli infermieri mi informano che il paziente col sodio basso non vuole rifare il prelievo. Sbotto. Che firmi in cartella e se ne assuma le responsabilità, ma devo andare a parlargli. Intanto però, passo dal paziente con la febbre da catetere. Gli esami non sono arrivati e sono passate tre ore. Chiamo in laboratorio, hanno problemi col sistema e non riescono a caricare gli esami. Mi danno qualche risultato per telefono. Sì, sembra proprio una sepsi.

Non ho il tempo di ragionarci su, perché arriva un altro ricovero. Dolore addominale. Non mi convince, attraverso tutta la trafila di cartella e prescrizione esami e attesa esami e firme e terapie copiate, sospetto che abbia una pancreatite. Mi chiamano gli infermieri, mentre cerco di capire chi abbia cosa, perché a questo punto, dopo una notte che giro come una trottola, non so più neanche chi sono. Per fortuna la prima buona notizia: hanno fatto il caffè. Corro verso la salvezza. Lungo il corridoio mi ferma un paziente. Mi dice gli esami che ho fatto ieri? La prego, tra un attimo. Vado a prendere il caffè e lo sento borbottare che prima del caffè vengono i pazienti. Non so come riesca a trattenermi dall’urlare. So che niente di tutto questo è colpa sua, ma so anche che qualunque cosa succeda se mi distraggo un attimo sarebbe colpa mia. Così taccio e prendo il caffè, sperando che mi rianimi. Potrei chiamare il reperibile per farmi aiutare ma il reperibile va chiamato se ci sono eventi particolari e non per il solito caos notturno, o dovrebbe stare sempre qui. La verità è che uno solo non basta. Intanto arriva il medico del mattino, la notte è passata. Non so cosa raccontargli prima. So solo che, miracolosamente, siamo arrivati al mattino dopo tutti vivi. Io e i pazienti.

E, in un attimo di lucidità, mi chiedo: È davvero questo il senso della medicina oggi?

 

di Redazione

 

Rubrica a cura di Fabrizio Vasile

 

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