di Antonella Chinnici 02/10/2022

La poesia di O. Mallo si concentra sotto l’insegna del viaggio alle pendici del sé.

Si tratta di versi forgiati nel crogiuolo del proprio mondo interiore. La scrittura è, per Ornella, continua ricerca, scavo nel proprio vissuto, nel proprio male di vivere, attraversamento senza mascheramenti del dolore, dolore che, da personale, sfora in dolore cosmico. Ѐ un attraversamento senza nascondimenti della propria sofferta esistenzialità che diventa paradigma d’una esistenzialità dolente tout-court . Invero la versificazione della Mallo è un pensiero risolto in poesia che si accompagna ad una smagata sensibilità assai prensile, perciò, al dolore colto nelle sue punte più acuminate per diventare strada accidentata e poi varco verso un mondo ed un iperuranio poetico in cui l’anima inquieta oltrepassa la prosaicità esistenziale a volte claustrante ed asfissiante, per divenire varco verso una dimensione sospesa, risarcitoria di libertà, speranza e sogno; elementi questi, troppo spesso, messi a rischio o sottratti, se non negati, dai mille ancoraggi del quotidiano e dagli anfratti delle cogenze del reale. La poesia, quindi, ha pure la valenza d’una sorta di indennizzo esistenziale cui l’autrice perviene tramite un percorso che in primis la sua versificazione è, ossia un iter attraverso un sofferto cammino conoscitivo, attraverso una poesia che si fa “pensiero poetante”. I componimenti sono quindi tappe d’un percorso, d’un’ascesa verso un oltre – come nella poesia ιοίην – momenti di quello scrutarsi dentro senza mai edulcorazioni seppur sempre con riserbo e pudore; pertanto, il poetare diventa uno scorazzare dentro il proprio mondo interiore tendendo ad afferrare oltre alle proprie fragilità, debolezze, ferite – spesso urenti – e cadute, le proprie risalite e rinascite dalle ceneri; è una poesia in cui l’autrice cerca di individuarsi e di individuare pure il proprio sé più sfuggente, quel proprio straniero che sempre abita dentro ognuno di noi. Quello che, nel più dei casi, resta un silente quanto sconosciuto ospite e, paradossalmente, nei nostri più intimi recessi, ovvero uno straniero residente nei nostri meandri più nascosti. Quindi, la prima relazione cercata da Ornella è quella con quel Tu che la abita, che è in lei e che pure rischia di restare altro da lei. D’altronde, troppo di frequente, non cogliamo, né riusciamo, né forse vogliamo conoscere, anche in una vita intera, quell’altro da noi che sta dentro di noi. Tale relazione con l’altro dentro di sé è ciò che può restituire e consentire quella pacificazione interiore che è pure una delle mete cui il poetare di Ornella è rivolto. La relazione con il suo Tu che la abita è garanzia unica per conoscersi e riconoscersi in questo iter poetico che diventa un continuo cercare appunto la relazione proprio a partire da quella con il proprio sé. Ornella infatti appartiene a quegli esseri che, come dice Platone, non vengono a definirsi “in sé” bensì, a quelli che, secondo il filosofo greco, “vengono definiti gli uni in relazione ad altri”. Tale costante tensione verso un Tu (già presente fin dal titolo della silloge Scriverti ) è un fil-rouge

della raccolta anche a costo di attestare un Tu che resta di frequente una presenza/assenza o un’assenza del tutto. Ѐ un Tu che, così, può rivolgere “uno sguardo senza sguardo”(come in “Squame argentate”) o un Tu addossato agli “Uomini non uomini che nascondono i visi nel buio di maschere contratte” della poesia “Le parole non dette”. In questa realtà come impaurita dalla luce che porta scomoda chiarezza e a cui si preferisce uno spesso più comodo “buio”, in questo mondo destinato alla coltre pesante dell’incomunicabilità (tema forte della poesia di Ornella e tema già cifra della poesia novecentesca) la poetessa trova momenti risarcitori di comunicazione autentica e di luce nella ineguagliabile magistra Natura in cui tutto entra in relazione, in cui tutto è davvero interrelato. Così dopo evocativi, metaforici inverni avari – avara si fa, montalianamente, l’anima nell’inverno avaro di luce – Ornella trascina i suoi piedi “blocchi di ghiaccio” ed i suoi pensieri “a fatica, lungo la riva”; ritorna Sirena a sciogliersi al sole: i piedi come i pensieri perché corpo e anima sempre si interconnettono nei versi della Mallo per cui, se si ghiacciano i piedi si ghiacciano i pensieri, se si gela l’anima si gela il corpo, come era per l’anima di Montale che si chiude e si fa avara nel chiuso e avaro inverno. Ritornare “Sirena”, nella riviera assolata, coincide col ritornare ad essere creatura terrestre in dialogo con terra e mare – come è della sirena – ovvero con quel mare risarcitorio di tanta mancanza e nostalgia di completezza. Si tratta dell’indennizzo che il mare dà, ovvero la restituzione di un senso di totalità, di dialogo, in una appagante relazione e panica fusione con il tutto. Così, il mare può diventare occasione per ritrovare il Silenzio, non certo quello ostile dei mutismi, dell’incomunicabilità, quello punitivo o comunque elargito dai tu assenti e senza sguardo, bensì, il magico silenzio “buono” che si fa occasione di sprofondamento nel tutto, quel tutto che il mare evoca, simboleggia e testimonia; tale tensione al tutto si ritrova in quella ”naturalizzazione” iconicamente presente nella suggestiva immagine creata dalla poetessa, ossia quella di una sorta di “nebulizzazione in spuma”. Dunque il mare è personaggio chiave e fondale scenico in cui effondere sensi di stupore, incanto o sensi d’una dolorosa “solitudine d’assenza”. L’assenza di chi si trincera come dietro ad una muraglia d’indifferenza, al di là della quale non si arriva a vedere e sentire o invero non lo si vuole. Alla poetessa resta quella “nostalgia d’impossibile” da distillare nei versi che diventano un concentrato del sé più midollare, un distillato d’un vissuto che scavato nel sé più intimo e silente non può che farsi folgorazione poetica, dettato essenziale e fotogrammatico. E d’altronde quando le parole si scavano, ungarettianamente, nel silenzio e nel dolore non si inflazionano. Da qui una connaturata inclinazione, una congeniale scelta di componimenti quali gli Haiku nei cui tre versi in diciassette more , l’autrice tesse un ordito elegante ed essenziale, sempre esito della naturale disposizione all’essenzialità; così, la poesia può affidarsi al registro anche più lieve e che sa accogliere un linguaggio più parlato , capace di captare la vasta gamma dei sentimenti e delle emozioni, dalla tristezza, alla gioia, alla malinconia. In questa silloge in cui si coglie anche la piacevolezza del ludus scrittorio e la volontà di sperimentazione artistica, la tastiera poetica si ritrova ricca e sempre capace, nei diversi registri e nelle diverse modulazioni espressive,​ di evocare perfettamente, sia nel corto giro di versi che nelle poesie di più ampio respiro, oggetti, figure e luoghi d’una ritualità quotidiana e d’una realtà affettiva che trova una purezza primigenia, una freschezza e fragranza di toni anche nelle ricercatezze e nell’artificio con disinvoltura padroneggiati, come per esempio nei Petit onze , nei Landays e Tanka . Sia nei dettati più essenziali, sia in quelli di più lungo respiro, uno dei fil-rouge è poi l’inquietudine metafisica che si interseca col vissuto personale, con l’aspirazione ad un “oltre” eppure con la devozione al “qua” ed alla terra. Altro fil-rouge è l’oscillare tra sensi di perdita e caparbia volontà di riscatto e rinascita dalla cenere, tra laica visceralità e tensione spirituale. Ancora cifra da sottolineare è quell’anelito religioso innervato, tuttavia, nella terrestrità umana e naturale tout-court rivelante uno sguardo poetico che si inoltra nella fitta foresta di simboli quale la realtà è, che si addentra nel caos del mondo per cercare di individuarvi un principio ordinatore. L’anelito spirituale e di elevazione presuppone la percezione della fragilità della condizione umana, restandone sempre pensosa e, montalianamente, si cercano riverberi di mistero e rivelazioni di quel Tu che può assumere i tratti d’un principio primo, la parvenza d’un assoluto, d’un dio demiurgo e ordinatore il quale restituisce il senso di un percorso poetico; quindi si ravvisa un percorso esistenziale, un sofferto cammino conoscitivo e di meditazione spirituale che esita, a volte, in atmosfere e toni ieratici. Tuttavia, l’officina espressiva di Ornella segnala sempre un senso di responsabilità etica profondo, come pure l’esercizio strenuo del verso, nonché la forza espressiva e la potenza simbolica capaci di tradurre in immagini ed in “pittura parlante” il pensiero poetante. Il linguaggio è sì una tecnologia e come tale può essere usato e abusato. Borges e Heideger affermarono che senza parola la cosa non esiste, che “è la parola che procura l’essere alla cosa”. Odifreddi ha sottolineato, pure, che quando il linguaggio non è correttamente usato, esita in sostantivi che non hanno alcun significato. Per Ornella, le parole sono pietre, non si inflazionano! E, così, “scavate nel silenzio”, si rimpolpano, si incrementano nel significato fino a suonare rinnovate e rinverginate. La poetessa, in “Scriverti” attribuisce nomi alle cose, nomi cercati e trovati con la fatica e la disciplina d’una scrittura consapevole nonchè sostanziata da un continuo e indefesso tirocinio tecnico.In tal modo, l’autrice, crea le cose, le forgia e, così, dando nomi alle cose demiurgicamente crea un mondo alternativo e assolutamente sub specie sua .