Recensione di Antonella Chinnici

Il titolo, già, sicuramente, coglie ed esprime in sè il fil rouge

della raccolta di racconti di O. Mallo, e il senso che l’autrice

vuole dare a questa: la dissolvenza in nulla di ciò che siamo

stati, dei nostri legami, dei nostri amori, delle nostre passioni,

anche di quelle più marcate da forza e intimità, come si

desume dai versi di Pablo Neruda da cui il titolo della raccolta

di Mallo è tratto. Il poeta, infatti, pensa, con estrema tristezza e

scoramento, che lui e l’amata moriranno lontani, in contesti di

estraneità; magari si apprenderà, per caso e dopo tanto, della

morte dell’altro ossia della persona con cui si sono condivisi

momenti di divorante passione e forte intimità. Nel racconto

Memoria, l’autrice trascrive un passo di E. Eutischenko sui

segreti pensieri, sui ricordi, sui labirinti interiori di ciascuno che,

dopo la morte, restano misteriosi anche per chi è stato

vicinissimo a chi muore, come un figlio che resta:

che sappiamo…del nostro stesso padre, tutto sapendo non

sappiamo niente e anche l’intimità profondissima, come è stata

quella descritta da Neruda, si perderà magari già prima della

morte dei due che finiranno la vita lontani e dei quali, dopo la

comune esistenza nessuno saprà mai dell’intensità d’una

passione che svaporerà in quel nulla d’un sarà come non

fossimo mai stati . Il fil rouge è dunque quello d’un destino di

irreparabile solitudine e nostalgia, d’un “Tu” (come già nell’opera

Scriverti della stessa autrice) ma, spesso questo

“Tu”, seppure sembra esserci, non c’è e non c’è mai stato. La

personaggia di “Sospesa” (una moglie) che evoca la protagonista de

L’altra di Cristina Comencini, e quella di Amicizia

(un’amante, come la protagonista del racconto, di A. Munro,

Quello che si ricorda ) lo sanno bene della mancanza di

un vero “Tu”. La quotidianità di queste donne è immersione

continua in un mare di estraneità. Neruda presagisce, già, la

nostalgia ai limiti della vita, di qualcosa che ha avuto e che c’è

stato; Mallo, segnala la nostalgia d’impossibile, quella di

qualcosa che mai c’è stato veramente; come la scrittrice stessa

sottolinea, nella sua introduzione, in ognuno c’è una sfera così

intima e segreta da poter essere intercettata da pochissimi e

solo parzialmente, da poter essere solo intuita dal filtro di altre

sensibilità personali che potranno, essendo altre, percepire

quello che si potrà e vorrà vedere. E ciò anche perché ognuno

di noi, in fondo, nell’altro cerca sempre se stesso! Tutti

vorremmo che chi ci sta accanto ci restituisse quel “noi” che di

noi ci sfugge e che sempre cerchiamo. Dunque, ciò che è più

proprio di noi sarà parzialmente, forse, colto da pochissimi. Il

“Tu”, l’Intuarsi”, l’intimità di Neruda sarà, per O. Mallo, nostalgia

di ciò che mai veramente è stato. E nessuna nostalgia ha le

punte più acuminate e nessuna è più forte di quella per

qualcosa che non abbiamo veramente vissuto, come pure in

Seta di Baricco viene sottolineato. Ma, questo quid

di impenetrabile e segreto che invero è

l’essenza di ognuno, ossia ciò che è essenziale e quindi eterno,

eppure fugace per la finitezza delle nostre vite, resta nella

temporaneità di un’esistenza. Ed è proprio questo quid

di sostanziale delle anime che l’autrice cerca di perlustrare

nelle sezioni del tripartito volume, ovvero in Storie di Vita,

in Diario e in Favole in Storie di vita,

si rincorrono, in verità, ‘destini negati’; le

donne, per lo più protagoniste, cercano di sfondare i muri delle

individualità, alla ricerca vana di un “Tu”. Tentativi, questi, che

marcheranno la solitudine femminile nella scoperta ineludibile

di mancanza di attenzione e considerazione dell’altro e ciò

perché lo straniero che ci sta accanto, spesso, è barricato in

una esasperata ed esclusiva considerazione del proprio sè, in

un egotismo aberrante che lascia e confina fuori dal proprio ego

l’altro, anche attraverso manifestazioni di aggressività,

violenza, cruenza estrema, quale l’omicidio, come nel racconto

di Celeste Così, in Ci prendono per navi e siamo isole

(il titolo è citazione dal poeta J.V. Piqueras autore della poesia), sulle isole che

sembrano navi in grado di offrire tesori, si trovano, invece,

lande di terra deserte, intricate, dalla impervia costa, dove non

si può giungere nè attraccare. Nessun uomo esperto di mare,

eppure perduto nella notte, vorrà approdare là dove ancora

fanno male le orme del naufrago che non sapeva di quella

deserticità e durezza di costa; più pericolose delle onde

tempestose sono le isole che mai possono ridare vita a chi

teme di perderla in mare; anzi, queste possono solo dare il

colpo finale e cruento alle membra che, sbattendo sulle loro

scogliere, le sporcheranno di sangue. Esse isole potranno

infrangere solo un naufragio doloroso e finale. La notte di queste isole nega

ogni strada del ritorno ogni amore che ci

possa salvare, come chi ci sta accanto, che scambiamo per

salvifica nave e, invece, è una figura respingente, come roccia

intattingibile per il naufrago. Sono esseri, questi, affetti da

‘inverno del cuore’, da cecità d’anima cui manca, per lo meno,

un pezzo d’anima! Questo viene in mente ad Anna,

protagonista del racconto che, prima ricorda la tanta intimità

condivisa col suo uomo, mentre i due erano navi in viaggio

l’uno verso l’altra verso l’attracco all’essenza dell’altro. Ora,

invece, la protagonista non riconosce più il compagno né

l’uomo duro, dal volto impietrito.

Eppure, ancora, Anna ricerca un varco tra le voragini del rifiuto:

quell’uomo verso una donna che, provata, è ora un essere

richiedente che sottrae tempo al sè d’un marito desertificato come un’isola. Paradosso: la

delusione estrema si consuma a Vulcano, isola avviluppata in

se stessa in cui muore una storia fatta di nulla; quando Anna

apre la porta della casa, dove già era stata l’ultima volta col

marito fantasma con il cuore da un’altra parte, ora lo ritrova

nella casa di Vulcano a tavola; accanto a lui una donn

a che dall’aria dimessa accarezza un vistoso pancione

. L’autrice, caustica, chiude il racconto trovando come una scorata

consolazione in una amara certezza, quella che tutto può

accadere perché invero le menti sono isole e le solitudini

isolamenti mentre tutto separa il mare , un mare invalicabile

quello delle anime, ovvero quello in cui nessun traghetto può

farci arrivare, ovvero le anime di chi ci sta accanto sono

immerse in un buio vuoto che inghiotte la luce dei fari

.Ma, come meravigliarci se, come si riporta in esergo di

Bianca da Michel De Montaigne:

Noi siamo fatti tutti di pezzetti… di tessitura uniforme e bizzarra

in cui ogni pezzo.. va per conto suo

; se c’è tanta differenza tra noi, ce ne sarà altrettanta

fra noi e gli altri , dice Ornella, nell’ incipit del racconto; e ancora la

scrittrice palesa ciò pittoricamente, ossia in una suadente e

plastica immagine: le mescolanze del bianco e del nero della

gradinata della chiesa dipinta dalle parole che creano, in

apertura del racconto, un quadro della chiesa innaffiata dalla luna

. Sono infinite le miscellanee di colore, come succede nell’uomo, uno e molteplice

,misterioso impasto di vizi e virtù, grazia e peccato sacro e profano

. E io aggiungo misteriosa alchimia, di angelicità e demoniacità, è quella d’ogni essere umano!

Dopo questo incipit il racconto suggella l’indifferente

atteggiamento e la noncuranza di fronte all’altro, e lascia intuire

la solitudine provata dall’anziano protagonista a tu per tu con la

sua angoscia dell’essere al fine vita. Di fronte a questa ndifferenza dell’uomo,

torna in mente Celeste, uccisa dall’amato, ma che, di contro, rappresenta la misericordia

femminile, la volontà ad oltranza, inesausta in certe donne, di

voler “angelizzare”, per così dire, il demone che hanno avuto

accanto, e da cui pure hanno avuto la morte. Celeste, uccisa

nelle acque del lago, ora dal cielo, così dice al suo Lui, al suo omicida:

sono un angelo, adesso e, per lei angelo lassù, lui è

rimasto, soltanto, il ragazzo dei momenti dolci. In paradiso,

forse, resta solo la memoria del bene: come dice Dante, alla

fine del viaggio purgatoriale, non si va in paradiso se non ci si

immerge prima nel Letè, fiume della dimenticanza del male

nella terra, e poi nell’Eunoè, l’altro fiume che fa restare

nell’anima il ricordo solo del bene. Oppure, più laicamente, in

alcune donne, la vocazione ad una sorta di “accanimento

redentivo” del demone, permane anche oltre la vita. Irredimibili,

certe donne, nella vocazione alla salvazione! La scrittrice,

attraverso la protagonista, forse apre qui alla speranza di una

eventuale redenzione in un’altra vita, anche di chi è stato il più

cruento carnefice in questa terra. Gesti, atteggiamenti, azioni

incomprensibili di chi abbiamo accanto e ci è straniero nel

teatro di ogni giorno, hanno come fondale scenico, un destino

indecifrabile quanto ineluttabile, che non ci fa agire ma ci

‘agisce’; siamo ‘agiti’, come marionette appese a fili invisibili – si

sente l’eco del Decadentismo, da Pirandello a Rosso di San Secondo – come nel racconto

Imponderabilità : condividiamo, gli uomini coi pupi, l’essere manovrati da fili, mentre

non sappiamo a quale mano sono attaccati i ganci che ci muovono, che

dirigono le nostre vite: così, agiti, siamo senza mai veramente

agire, senza mai veramente vivere. E su ciò, nella chiusa, il

senso del transeunte, il finire di tutte le cose che scivolano

verso la morte. Questo racconto è una sorta di diade assieme

al brevissimo quadro onirico e surreale quale è “

La mano, ” il microracconto fotogrammatico e più che mai intenso nella

costrizione del dettato: una mano diafana, esanguedalle dita sottili,

si aggrappa alla mia gonna, la strattona con forza, urla di portarla con me ! E in chiusa, il

leit motiv del racconto Imponderabilità: siamo marionette: eterodirette: con gli occhi

cerco il filo cui è appesa la mano.

In Xenia, la protagonista, una donna nera, stringe il bimbo che

piange per non essere ‘visto’ dai passanti nella sua sofferenza

di bambino solo e affamato. Cicala, una donna nera, allarga le

braccia e gli dice io ti vedo, Il bambino cessa il pianto rassicurato:

perché l’accoglienza salva, fa sentire vivi, valica le

frontiere, mentre non ci sono confini tra gli uomini sofferenti

.

Amicizia è la storia di una passione mancata, evitata, tenuta a

distanza. L’autrice ripensa, in esergo al racconto, a quei versi in

cui V. Cardarelli ritorna ai giorni… perduti in cui si incontrò con

la sua “amata impossibile”, ai giorni della incresciosa intimità di

cui è rimasto -amaro vanto- qualcosa di quel non ceduto agli

abbandoni, mentre qualcosa è sempre mancato

. Elsa è ammalata di polmonite. Lui è il medico che la cura. La donna,

invero, comprenderà presto che la guarigione non è prodotta

dalla terapia del suo medico, bensì dall’amore inaspettato e

improvviso nato tra lei e il dottore. La donna ha scorto, in

quell’amore, una ragione per vivere tutta sua, tutta piantata nel

giardino segreto, nel giardino di sogno di quell’amore segreto,

negli occhi del medico, il cui sguardo su di lei è ben più intimo

di quello che possono scambiarsi due coniugi o comunque due

che si devono qualcosa. E qui scorgiamo una intertestualità

con Quello che si ricorda di Alice Munro: nella Mallo, come

nella scrittrice canadese, le due donne protagoniste recuperano

tasselli del passato con i loro frizzi di gioia, e riverberi di felicità

che riemergono da lontano come un susseguirsi di ondate di

intensa memoria, sono sorsate di cielo, sorsate di vita, un po’

rubate come la sorsata di vita pagata dalla Dickinson e scottata

con una intera esistenza di dolore. La protagonista di Amicizia

rifiuterà altre sorsate di vita, altre sorsate di cielo, che l’amante

le avrebbe donato in un amore che Elsa capisce essere la

proposta d’un viaggio senza meta; per carità, un viaggio in cui

la meta è il viaggio stesso è suadente, ma, Elsa rifiuta un

viaggio senza un arrivo. In un andare e venire di ricordi, in una

bolla surreale, è molto poetica la corsa nel sole, il passo

frettoloso mentre corre da lui, Eppure, vi è lo scorato riflettere

che si tratta di un niente per il medico, forse di un qualcosa che

assomigli ad una pausa caffè, ad un passatempo. Mentre, un momento è

culla e morte, perché lo si attraversa e ci attraversa con la consapevolezza

che finirà di lì a poco eppure è anche il momento un’ esplosione di vita sommersa,

quella che si vorrebbe vivere, quella che ogni tanto buca o straccia un po’ le

nostre maschere. Nell’istante in cui i due amanti sono nudi, si

vedono come sono… Liberi, perché sono solo un uomo e una

donna che si bramano ansiosi dopo il lancio delle pesanti vesti

dei loro ruoli, dopo che si spogliano, per poco, delle loro

camicie di Eracle. Quella di Elsa e Antonio, nella scena finale, è

una scena vera che però sembra il clone del quadro di Giuditta e Oloferne

: Antonio vede sè sedotto come Oloferne, la sua testa è tra le mani di Elsa

che, soddisfatta, la tiene, ma, mentre lo decapita gli consegna la sua

. Sono questi altri, due destini negati, è una storia d’amore mozzata dalla storia delle loro vite

diverse; sono vite decapitate, come quelle teste del quadro, e

come tutte le storie mozzate del loro futuro. Questo senso del

momento di felicità degli amanti, struggente nel suo essere solo

un istante in una sorta di “bolla” sospesa, ricorda tanto un passo di

Passione semplice di E. Ernaux che, in modo assai

poetico, cristallizza un momento di estasi gioiosa vissuta con

l’amato nella intensa immagine d’un’istantanea colorata di

felicità in una sequenza di giorni uguali e sempre in bianco e nero.

nella casa di Vulcano a tavola;

accanto a lui una donn a che

dall’aria dimessa accarezza un vistoso pancione . L’autrice,
caustica, chiude il racconto trovando come una scorata
consolazione in una amara certezza, quella che tutto può
accadere perché invero le menti sono isole e le solitudini
isolamenti mentre tutto separa il mare , un mare invalicabile
quello delle anime, ovvero quello in cui nessun traghetto può
farci arrivare, ovvero le anime di chi ci sta accanto sono
immerse in un buio vuoto che inghiotte la luce dei fari .
Ma, come meravigliarci se, come si riporta in esergo di Bianca
da Michel De Montaigne: Noi siamo fatti tutti di pezzetti… di
tessitura uniforme e bizzarra in cui ogni pezzo.. va per conto
suo ; se c’è tanta differenza tra noi, ce ne sarà altrettanta fra noi
e gli altri , dice Ornella, nell’ incipit del racconto; e ancora la
scrittrice palesa ciò pittoricamente, ossia in una suadente e
plastica immagine: le mescolanze del bianco e del nero della
gradinata della chiesa dipinta dalle parole che creano, in
apertura del racconto, un quadro della chiesa innaffiata dalla
luna . Sono infinite le miscellanee di colore, come succede
nell’uomo, uno e molteplice , misterioso impasto di vizi e virtù ,
grazia e peccato sacro e profano . E io aggiungo misteriosa
alchimia, di angelicità e demoniacità, è quella d’ogni essere
umano!
Dopo questo incipit , il racconto suggella l’indifferente
atteggiamento e la noncuranza di fronte all’altro, e lascia intuire
la solitudine provata dall’anziano protagonista a tu per tu con la
sua angoscia dell’essere al fine vita . Di fronte a questa
indifferenza dell’uomo, torna in mente Celeste, uccisa
dall’amato, ma che, di contro, rappresenta la misericordia
femminile, la volontà ad oltranza, inesausta in certe donne, di
voler “angelizzare”, per così dire, il demone che hanno avuto
accanto, e da cui pure hanno avuto la morte. Celeste, uccisa
nelle acque del lago, ora dal cielo, così dice al suo Lui, al suo