Recensione ad “Attraversamenti” di Bartolomeo Bellanova,

Puntoacapo edizioni. – a cura di Ornella Mallo.

7 novembre 2024, ore 18.38

“Non ci si libera di una cosa evitandola, ma soltanto

attraversandola.” Così scriveva Cesare Pavese ne “Il mestiere di

vivere”, ed è esattamente l’operazione che compie Bartolomeo

Bellanova nella silloge “Attraversamenti”: il Poeta infatti attraversa i

mali della nostra epoca, li scandaglia minuziosamente, indicando il

percorso che si deve seguire per risolverli e superarli. “Siamo aratri

senza vomere / abbandonati in un campo minato / sotto al cielo”,

scrive l’Autore nella poesia “Bianchi e neri”; e ad esergo della lirica

“Cucina internazionale” riporta una riflessione – attinta dall’opera

“Svegliamoci” di Edgar Morin – sull’oscurità che attanaglia i tempi

di oggi: “La crisi dell’umanità che è allo stesso tempo tanatologica

(perché porta in sé una minaccia di morte), ecologica, economica,

di civiltà e storica (…) è una crisi antropologica che riguarda la

natura e il destino della condizione umana.”

Non per niente il Poeta bolognese inizialmente aveva pensato di

intitolare la sua plaquette “Traiettorie”: la copertina reca la

luminosa immagine di un cielo azzurro solcato dalla scia bianca di

un aereo a reazione, vera e propria traiettoria che conduce dai rami

di un albero – visibile in alto nella foto -, al cielo e a candide nubi.

La scia dell’aereo a reazione potrebbe essere la parabola della

freccia di cui parla Bellanova nella poesia “Battesimo”: «Scoccati

freccia buca la faggeta / bersàgliati nel cielo: /

“l’arco è il sacro Om,

la freccia è l’anima Brahman il bersaglio“»

Nei versi appena citati l’Autore inserisce uno stralcio della

“Mundaka Upanishad”: il termine sanscrito “Brahman” indica l’unica

realtà che pervade o trascende il mondo fenomenico. Il richiamo a

una dimensione metafisica è presente in tutta la silloge. Per

Bellanova l’uomo è “animal metaphisicum”, per come scriveva

Schopenhauer: il senso dell’esistenza risiede nello squarcio del

“velo di Maya”, cui fa riferimento nella poesia così intitolata, ossia

nel riconoscimento dell’essenza spirituale immanente in tutte le

cose. I mali della nostra epoca discendono allora dal rifiuto

dell’Uomo contemporaneo nei confronti della trascendenza. In

“Visita oculistica al monastero del Santo Spirito (Agrigento)”

leggiamo: “Uomo scocca ingranaggi cinghie e pistoni / perché hai

espulso dalla tua vita la porzione / non edibile dai vermi?”

Aleggia in tutta la raccolta un forte misticismo, che si contrappone

al materialismo del mondo di oggi, vera e propria Babele cui manca

un linguaggio unitario, usato e compreso univocamente da tutti i

popoli indistintamente, non più afflitti da muri divisivi.

La poesia che apre la raccolta, parla di un sangue che si ribella alle

discriminazioni, che vorrebbe esplodere dalle vene di ciascun

essere umano per dare vita a un unico organismo universale.

Leggiamo infatti: “Scuci l’imbastitura dei tessuti epiteliali / lo vedi

che siamo corpi illimitati / […]// Il sangue si annoia a morte a

correre / sempre nello stesso circuito. // A volte bussa, bussa forte /

dice che vuole schizzare fuori imbrattarsi / miscelarsi nelle sacche

per trasfusione / perdere memoria del padrone / essere di tutti e di

nessuno.”

Parole che tuonano come un monito in un’epoca come la nostra,

infestata da guerre, da comportamenti violenti e repulsivi nei

confronti dell’Altro, visto non come un fratello da accogliere ma

come un nemico da sopprimere e allontanare.

Già nella silloge che ha preceduto “Attraversamenti”, troviamo in

uno stadio embrionale queste considerazioni. Nel “Prologo” di

“Perdite” – è questo il nome della raccolta -, leggiamo: “È un

inganno quotidiano, / un furto con destrezza / della nostra polpa più

profonda, / questo incessante martellare del mondo / sulla testa

delle parole-luce / per fare posto / alle parole infestanti”. E

aggiunge: “Disertare / con la parola che divide le acque del Mar

Rosso / e ci guida in quel mondo / dove siamo padri e figli / madri e

sorelle / fratelli anche / nello scorrere del poema incessante”.

Sono strade tracciate da una religiosità laica, il cui spirito Bellanova

condivide con il lettore, affinché anche quest’ultimo trovi la luce.

Confluiscono nella silloge citazioni attinte dalle Upanishad, dalla

Bibbia, dal Vangelo, dai testi sufi: il Poeta le stralcia e abilmente le

mescola ai propri versi, a significare che tutte le religioni

convergono verso un’unica realtà ultraterrena e verso un unico Dio.

Nella poesia “Sorellanza” la Madonna raggiunge la dea indiana

Parvati, e la invita a celebrare le nozze con il suo amato sposo:

“Insieme hanno steso un manto di unghie / di pesco e di ciliegio, /

insieme sono scese cantando inni. // Le loro strade si sono divise /

come i rami di una grande quercia: / chi verso i flauti e gli incensi /

chi verso il cranio delle croci imminenti.” Attraverso la meditazione

è possibile allora ascoltare la voce interiore: ecco perché l’Autore

intitola “Lo scandaglio” la seconda parte della silloge, invitando il

lettore a scavare nelle “foibe della propria psiche/ dove il buio è

solido come / un pane di burro rancido.” La conoscenza di sé può

aiutare a risolvere i conflitti interiori tra bene e male, in eguale

misura presenti nell’animo umano. Scrive il Poeta nella poesia “Del

male e del bene”: “Caino e Abele / Romolo e Remo / Dio e il

demonio / fratelli gemelli / la vita e la morte. // Portiamo di entrambi

il seme / annaffiamo il grano e la gramigna.” Riconoscendo l’origine

divina delle cose, è possibile ricongiungersi con la luce, e quindi con

l’Essere. Scrive Bellanova: “Dio il geranio che sverna e sviola /

ingravida la luce / l’ape bottinatrice / l’infaticabile”. Si tratta di un

chiaro riferimento a Rilke, che diceva: “Noi siamo le api

dell’invisibile. Bottiniamo perdutamente il miele del visibile per

accumularlo nella grande arnia d’oro dell’Invisibile”. Quanto mai

calzanti le parole della mistica Simone Weil: “C’è una colpa sola:

non aver la capacità di nutrirsi di luce. Perché, abolita questa

capacità tutte le colpe sono possibili.”

In questa ricerca assume un ruolo centrale la parola, e in particolare

la parola poetica. L’abuso nella società odierna di parole

“infestanti” che oscurano le “parole- luce” era già stato denunciato

in “Perdite” e viene ribadito in “Attraversamenti”. Non è un caso

che il Poeta, ad esergo di quest’ultima raccolta, riporti una citazione

tratta dal Vangelo di Matteo: “Vi dico che di ogni parola vana che

avranno detto, / gli uomini daranno conto nel giorno del giudizio. /

Poiché dalle tue parole sarai giustificato / e dalle tue parole sarai

condannato.” Il termine “parola” discende dal greco parabolé, da

“paraballo”, che significa “io confronto, metto a lato”. Dall’analisi

della realtà discende la parola che la esprime, cui viene riconosciuto

anche il potere di creare, se veritiera. Può costruire, se bene

impiegata. Oggi, invece, sempre più frequentemente la parola viene

usata per distruggere e annientare l’Altro.

Bhan Que Mai Nguyen, in “Quando le montagne cantano”, scriveva:

“Le parole sono come coltelli / lasciano ferite invisibili / che

continuano a sanguinare.” Bellanova di rimando, nella poesia

“Miserabili” scrive: “Parole lamette sfregiano le guance / vivisezione

di pezzi di corpi / dall’insieme.” E nella poesia “Autobus” asserisce:

“Solo la parola detta / qualsiasi parola lievitata / dal battistero

occipitale delle teste / ricompone la donna l’uomo / il passeggero.”

La metafora del lievito fa pensare a una parola ponderata, che

coglie l’essenza delle cose: e quale parola racchiude in sé queste

caratteristiche più della parola poetica?

Diceva Borges: “Tutto deriva dal corpo e si fa poi parola. Così nasce

la poesia.” E Ceronetti, citato dallo stesso Bellanova ad esergo della

prima parte di “Attraversamenti”, intitolata “Visioni periferiche”,

sulla parola poetica scriveva: “Le troppe mani che in solitudini /

Parricide incarnate trepidano / E i visi enormi d’uomo e di materia /

Sfigurata che vivono nell’uomo // Che una poesia capace li

raccolga / Sulla lingua della sua lacrima.”

D’altra parte per Bellanova, così come tutte le religioni sono fiumi

che affluiscono ad un unico Dio, allo stesso modo le opere dei poeti

di tutti i tempi sfociano nel mare della “Poescenza”. Nella poesia “Il

dettato” il poeta scrive: “Quando sento l’eco delle mie parole, le

stesse, / le inquietudini, le gioie e le tenaglie in corpo / di una donna

o di un uomo vissuti / cento, duecento, cinquecento anni prima […]

mi chiedo // se questo corpo e questa mente sono io / o sono

espressione della staffetta dell’Essere / che ha preso

temporaneamente le mie forme. // Allora entro in comunione / con

chi ci fu e con chi verrà, / ne divento minima balbettante

espressione.”

Le riflessioni che attraversano tutta la silloge di Bellanova non sono

mai assertive: nel suo scavo il Poeta si ferma sempre sulla soglia

del mistero, che viene individuato come essenza di tutto, ma senza

certezze che lo disvelino nella sua intima natura. Le sue poesie

quindi esprimono dubbi, e rivelano l’umiltà del Poeta che si

inginocchia di fronte all’enigma dell’Universo sentendo di esserne

un minuscolo atomo.

Sono quanto mai appropriate le parole di Arnold Schoenberg, che in

una lettera a Kandinsky scriveva: «Dobbiamo renderci conto che

siamo circondati da enigmi. E dobbiamo avere il coraggio di

affrontarli senza chiedere vilmente di avere “la soluzione”. […] Essi

sono, infatti, il riflesso dell’inattingibile. Un riflesso imperfetto, cioè

umano. Ma se per loro tramite impariamo soltanto a ritenere

possibile l’inattingibile, allora ci avviciniamo a Dio, perché in quel

momento non chiediamo più di volerlo capire.»

Perciò Bellanova, in “Notte di Natale”, da un lato pone il lettore di

fronte al mistero dell’Eucarestia – “In trachea vibra uno sguardo /

che dice: “ti ho atteso a lungo”. / Ha la luce del Padre e di mio

padre, / quella voce.” – ; dall’altro lato chiude la poesia scrivendo:

“Io non so dire il fuoco / da una goccia di caglio / dalle labbra del

neonato.”

Lo stesso agnosticismo ritroviamo anche di fronte al mistero della

morte: se è indubbio che un giorno moriremo, resta l’incertezza

sull’aldilà: “Da piccolo mi dicevano che il giorno del giudizio /

resusciterà anche il corpo / per ricongiungersi all’anima che già /

l’attende in cielo. // […] quale corpo ci accompagnerà per sempre? /

“E nella poesia “A Fano” leggiamo: “Crederti o non crederti / non

era questione di ruffiana condiscendenza / ci sono troppi

smottamenti dentro, voragini / c’è da interrogare il fiato / e l’acqua

che ci impasta.”

Nella silloge “Attraversamenti” è possibile scorgere echi di Dante,

considerato che il percorso che compie l’autore conduce dalla

“selva oscura” alla luce, esattamente come quello del poeta

fiorentino nella Divina Commedia. In “Pierrot” leggiamo: “All’arrivo

la voce presa a prestito / dalle stazioni glamour rammenta / che è

pericoloso attraversare / i binari della rassegnazione / per ritornare

a riveder le stelle / dove non esiste un sottopasso.”

Sostanzialmente la poetica di Bellanova ha le medesime

caratteristiche che lo stesso poeta rileva nella poesia di Borges. In

“Eres – omenaje a Jorge Luis Borges” leggiamo: “Sei la retta gialla

della preferenziale / che sghemba s’adatta / alla strada medievale.”

Allo stesso modo, l’Autore bolognese adatta alla tradizione

contenuti e forme contemporanee, ricavando un linguaggio nuovo,

moderno. Per cui, se la visione della donna come “Madonna – Mia

donna” ricorda il Dolce stil novo, in quanto depurata della

pornografia dei tempi di oggi, dall’altra parte la concezione

dell’amore è tutt’altro che spirituale. Nell’amplesso si congiungono i

corpi e le anime degli amanti in un unicum. Non solo. Ma i figli nati

da “copule d’amore”, come scrive il Poeta in “Cucina

internazionale”, possono dare vita a una nuova umanità che salvi la

natura e sé stessa, anziché correre a perdifiato verso un futuro

distopico e autodistruttivo. Bellanova dà indicazioni su come salvare

il pianeta, esattamente come se fosse una ricetta: “Rovesciare nella

gavetta / ovuli sbattuti e sperma sottratto / in ogni dove solo dalle

copule d’amore. // Attendere qualche secolo / se questa pasta

nuova / lieviterà bene nelle pance / sarà una festa senza fine.” E in

“Madre” scrive: “L’hai visto bene all’ecografo il profilo / del tuo

fagiolo d’amore / che succhia dai tuoi villi / t’assorbe e ti esplora?

//[…] Fa’ che dorma e sogni /[…] per raccontare ai suoi figli che in

un tempo lontano / tra otto miliardi di ostaggi di bande di assassini /

ci fu qualcuno che nascondeva semi sotto la neve.”

L’amore inteso come cura sopravvive alla morte. Non per niente la

seconda sottosezione della prima parte silloge si intitola “A-mors”,

con l’alfa privativo anteposto al termine “Mors”. Immaginando il

proprio corpo morto e trasformato in albero, il Poeta raccomanda

alla propria donna: “Amata, quando verrai sotto al mio ombrello /

affonda la tua bocca / nella dolcezza della mia vulva matura /

mangiami ancora e ancora. // E quando dopo innumerevoli anni

anche tu / sarai messa a dimora / incroceremo i peduncoli delle

radici / reciteremo il nostro nuovo Canzoniere / e parleremo coi

vicini degli irriconoscibili / mutamenti delle stagioni.”

La poesia di Bellanova appare ben circostanziata, perfettamente

inserita nel tempo e nello spazio. Nella prima parte, intitolata

“Visioni periferiche”, e in special modo nella sua prima

sottosezione, intitolata “De natura”, il Poeta attraversa non solo la

Bologna in cui vive, con i suoi dintorni, ma anche paesaggi siciliani,

calabresi, per arrivare a Lisbona e Amsterdam. Bellanova muove

dalla realistica descrizione della natura, dei santuari, e delle realtà

sociali contadine e cittadine, per scivolare poi nei meandri della

psiche, scavando negli stati d’animo dei protagonisti delle sue

poesie, attori in quegli scenari: il poeta incontra uomini giovani e

anziani, donne mature e adolescenti, tutti segnati dal malessere di

oggi, dalla perdita dei valori e dalla solitudine esacerbata dal web.

Nella poesia “Galaxy” scrive: “Doble sim / double life / sdoppiamenti

menzogne / ricarica esaurita / schermo nero.” Unico rimedio è il

ritorno a rapporti umani sani, e l’abbandono di tutto ciò che li

ostacola: “Dobbiamo sfollare / con i versi e la farina, non è più

tempo di stare, / andare alla macchia, / sforbiciare la rete e /

sotterrare le password. [..] Allora balleremo scalzi / su fili di atomi

festanti tesi tra le querce.”, leggiamo in “Imboscate”.

È una poesia visiva con una sua colonna sonora, come fosse un

film: la musica spazia dal valzer al Rigoletto, da “Star man” ad

“Eyes without a face”, a “Space oddity”, a “The wall”, tanto per fare

qualche esempio. La mescolanza dei versi delle canzoni alla poesia,

non solo rende le composizioni di Bellanova compenetrate nella

realtà contemporanea, ma ribadisce il loro essere “relazionali”, per

come scrive Franca Alaimo nella postfazione. Sono ravvisabili anche

echi di Pascoli, di cui cita l’assiolo in “Star man”, e dell’ultimo

Montale, di cui Bellanova sposa il piglio caustico nella condanna al

consumismo di oggi, con i suoi slogan “all you can eat” e “all you

can fuck”.

Il sarcasmo però cede il posto al lirismo più puro nelle poesie

d’amore e nelle poesie religiose, vere e proprie preghiere che

Bellanova rivolge a un Dio universale, che travalica le singole

confessioni, e alla Madonna. In particolare, nella poesia “Madonna

di San Luca – Bologna”, leggiamo: “Conservaci vicino a te / nel

tepore dei tuoi occhi che sciolgono i ghiacciai. / […] Qui una

cazerolada di anime / in piedi e in ginocchio ti parla, / Madre che ci

conosci a uno ad uno / ed uno ad uno consoli. // Chi ti consolerà?”

Per il Poeta la preghiera è medicamento, ed è quanto mai

opportuno concludere le nostre note di lettura con le parole di

Ceronetti: “La preghiera è una guarigione, diceva Mohammad

secondo Al Bukhari. È profondo che abbia detto guarigione, ed è

molto più esatto che guarisce. La preghiera non può guarire, ma è

una guarigione; non dà la salute, è la salute.”

Ornella Mallo