NOTE DI LETTURA A “DOPPIA VOCE”, di Bonfiglio- Lombardo, Ed.Arianna 2023 – Versione definitiva

“Essere appena l’intermediario fra la terra incolta e il campo arato, fra i dati del problema e la soluzione, fra la pagina bianca e la poesia, fra l’infelice affamato e l’infelice che è stato saziato.”, scriveva Simone Weil ne “L’ombra e la grazia”. E in “Doppia voce”, libro che contiene due raccolte poetiche, una di Anna Maria Bonfiglio, e l’altra di Clelia Lombardo, le due poetesse si fanno intermediarie tra la vita, con tutte le sue variegature, e il foglio bianco, operando così un processo gnoseologico e sublimante, grazie al quale trasfondono nei loro versi le valutazioni che su di essa hanno acquisito nel tempo, e le mettono a frutto per costruire il futuro. “ È un giorno lungo / la vita / con tante ore a perdere / e un ampio fazzoletto / dove raccoglie i frutti / andati a male”, scrive Bonfiglio nella poesia che apre la sua raccolta. È dunque un’opera in cui le voci delle poetesse s’affiancano e s’intersecano, mantenendo ben distinte le loro identità: l’una fa da contraltare all’altra creando un equilibrio armonico, senza contrasti, in una dialettica che nasce dal rispetto e dal confronto, come succede sempre in un rapporto amicale vero e autentico. Perché l’altro grande contenuto di “Doppia voce” è l’amicizia che lega le due poetesse, tra loro e al grande poeta siciliano Nicola Romano, recentemente scomparso, cui l’opera è dedicata. L’amicizia e l’amore, a prescindere dall’entità su cui questi sentimenti vengano riposti, sono i valori che per le autrici danno senso a una vita che non risparmia amarezze e dolori, ma che non per questo deve essere elusa e sorvolata in superficie, ma al contrario va attraversata e percorsa restandoci sempre pienamente dentro. “Essere sempre in vita, piena di parole sulla vita, come se le parole fossero in vita, come se la vita fosse nella parola”, scriveva Ingeborg Bachmann. Le poetesse, per esprimere l’ineffabile sotteso alla realtà materiale, si servono di parole scelte con cura e parsimonia: “mi fanno visita parole / fili di luce”, scrive Lombardo. Le poesie sono concise, epigrammatiche; tutte senza titolo, con l’intercalare di lettere maiuscole poste all’inizio delle frasi in Bonfiglio, tutte minuscole in Lombardo. La scrittura è rarefatta: sono lampi che rischiarano il buio all’improvviso per poi dileguarsi, così che il lettore percepisca l’affiorare, dalle interiorità più recondite, dei caratteri neri che restano incisi sul foglio bianco. “Accosterò l’orecchio / al cuore della notte / perché il silenzio / si faccia eco / di parole perdute / e ritrovato stupore / a un sogno ancora libero,” scrive Bonfiglio, che in un’altra lirica asserisce: “E l’anima trasmigra ad altri luoghi / dentro profondi mari s’inabissa”. La sua raccolta, intitolata “minimo e infinito”, si apre con un esergo che ne annuncia in modo esaustivo il contenuto: “Del poco amore la sera / trangugiò l’ultimo sorso.” L’amore è tanto necessario quanto raro; ma quel poco che è dato incontrare, è nutrimento indispensabile, per cui ogni suo sorso, per quanto fuggevole e inquinato da falsità e ambivalenze, va “trangugiato”, ossia ingoiato, mandato giù sopportando, per obbedire a un bisogno proprio di tenerezza emotiva, e anche a un desiderio sensuale: “Ti avvicini al mio corpo / sollevi con prudenza / fasci di nervi morti / e il volto distrattamente occulti / ma il tuo collo è ansa che m’accoglie / rifugio a tenerezze mute.”, scrive la Poetessa in una lirica. “Ancora l’inconfondibile voce / del sangue – denudata di carezze / accecata da fuochi incessanti – / l’insaziabile voce / del perpetuo morire / per una realtà d’anima e carne / che chiede tregua al precipitare”, leggiamo. E in un’altra poesia scrive: “Se solo fosse vero: /felicità assoluta / un giorno un’ora / lo smemorarsi / di ogni malinconia / anima e carne / in una nota sola.” Il fatto che a trangugiare “l’ultimo sorso ” sia la sera, induce a pensare che Bonfiglio faccia riferimento a quel che resta da vivere, e alla memoria del già vissuto: sarà “minimo e infinito”, consapevolmente privato di ogni illusione: “Fabula o parodia / siamo giunti a quel punto / in cui l’attesa / non è che la premessa / del finale / Questa notte è la porta / sull’ignoto / la cenere di tanti altri domani rovesciati”. La Poetessa porta alla luce la rete degli inganni nascosta sotto il tappeto, “trama designata / nell’universo apocrifo del sogno”: “Come quei fiori / che crescono sui prati / a dispetto del piede / che li schiaccia / germogliano gli inganni // e tramano altri imbrogli / dietro le spalle.” Squarcia il velo di nebbia che offusca i contorni, e chiama le cose con il loro nome, mettendosi a nudo a sua volta: “[…] Li chiamo per nome uno per uno / uomini e cose – piccole creature / del minimo mio bosco ed infinito – / per la paura di perdere per sempre / il loro nome e il volto / nella cupa foschia di un tempo morto”. Il tono oscilla dal caustico, quando parla di “favole acide” raccontate da un’” Aspra favella”, allo struggente, quando entra nel “midollo della pena”, accecando “ l’occhio perverso dell’attesa”; ma sempre impera nei versi un’ardente passionalità: “Fu il gesto rapido: / s’accelerò il sangue nelle vene / e divampò il fuoco”, scrive, e altrove aggiunge: “parole cieche e occhi / senza voce rimescolano il sangue”. La sensualità carnale della femmina non è spenta dal trascorrere del tempo: “Ancora la rossa corolla / avverte i fremiti / dell’insopito desiderio”; anche se lo sguardo che posa sulla realtà è ormai impietoso: “Si è sciolta la pietà nel flusso / velenoso delle correnti / e stenta per risalire all’anima / sincera e pura / come i gigli dell’Eden”. Se Bonfiglio nel suo esergo mette in risalto come anche un sorso d’amore nutra, il controcanto di Lombardo esalta le briciole già nel titolo della sua raccolta poetica: “di briciole faccio un pane”. Tutt’e due le autrici tessono l’elegia del poco che si fa molto, fino a perdere ogni misura. Clelia di briciole fa pane alla stessa maniera del vento che “di fili sparsi […] mostra un veliero ”: somiglia alla luna, che “di tetti fa la sera”. Una luna antropomorfa, portavoce degli stati d’animo della poetessa, doppia, blu, striata, ma sempre serena nell’apprezzare quanto dà la vita, e nel farselo bastare. Torna l’amore come dono che conferisce senso e vicinanza, dopo tanta austerità esasperata anche dal Covid: “ ricomincio da una luce alla finestra / da un presunto palpito d’amore / dal tenero biancore di un pomeriggio primaverile / dopo tanta austerità e lacrime / conficcate nella fronte / tu mi daresti un bacio?”, scrive. Lo sguardo che Lombardo rivolge alla realtà è penetrante: “scusa se ti scompongo / in prossimità di raggio”, afferma; la sfalda in ogni suo strato fino a percepire l’infinito: “l’infinito per sua indole / si nutre di richiami / incrocia le dita / anche di pelle e d’anima // del seme spacca la penombra”. La poetessa compie una severa autoanalisi, e riconosce in sé la capacità di distanziarsi dalle cose per meglio conoscerle e afferrarle, allo stesso modo di Simone Weil che sempre ne “L’ombra e la grazia” scriveva: “Se mi si bendano gli occhi e mi si legano le mani sopra un bastone, quel bastone mi separa dalle cose ma con quello io le esploro. Sento solo il bastone, ma percepisco solo il muro”. Di rimando, Lombardo afferma: “di lontananza è pieno il mio corpo”, “sono qui con i

caratteri del cielo / lontananza inappuntabile / rialzati lì / dove sei caduta”. “oltre misura il cuore si scorteccia”, scrive in una poesia da cui è tratto l’esergo. E la sua è una poesia scarnita, epurata da ogni superfluità, minimale. C’è l’io lirico, ma c’è anche il tu, cui la Poetessa rivolge il suo sguardo inclusivo: “innanzitutto vorrei parlare di te / che mi strappi la testa e mi consoli / sembra tu voglia appropriarti del mio bene / del mio male / distrattamente io te lo consento”. Emerge la sua volontà di rinascita dopo tanto dolore: “ho raccolto piume e rossetti / per angeli di pietra e gambe strette / io trasloco / è asfissiante la bugia il rimpianto / ogni mio fragile pentimento / lascio lacrime alle porte / goccia sospesa cuore legato”. Alla speranza Lombardo riconosce un valore salvifico, la spinta che può cambiare “la triste natura / delle cose”: “per gioco o per furore saremo vicini / alle trasformazioni / e se il coraggio salperà in contumacia / avremo spine conficcate a dovere / a sfidare il maltempo / le speranze”. Le speranze cui abbocca, per quanto false, consentono a Tantalo di cantare. E ammonisce: “bisogna aspettare le nuvole / spiluccare ombre / come petali / proteggere i colori // diluire onde / sciogliere le mani”. Anche quella di Clelia è una poesia carnale: “le parole cellule del mio corpo / mio silenzio di carne / innervato di sangue e occhi”, scrive. Ed è irrorata dalla luce dell’”alba dei dintorni”, che “si apre con vera riconoscenza”, sì che senz’altro riconosco in Lombardo quello sguardo di cui parla Borgna nel libro “Le emozioni ferite”: “Lo sguardo non è vedere oggetti, ma vedere destini, decifrare il fulgore degli occhi che si nasconde a volte nella fatica di vivere e nel silenzio, nella lontananza e nella malinconia.”

Le poetesse riflettono sulla condizione femminile esprimendo punti di vista che si amalgamano tra di loro. Scrive Bonfiglio: “ Moneta pagata alla vita / questo fiotto vermiglio / che torna negli occhi del sonno / Non presagio di morte / ma grido del ventre / per allodole che hanno taciuto / sui rami del primo mattino”. Le fa eco Lombardo con il suo controcanto: “lei di trame si fece a pezzi / a furia di sbattere la faccia / le si cambiarono i connotati // di scalfire il muro neanche a parlarne / annegava nella polvere”​

Bonfiglio sottolinea come la poesia, in quanto arte, sia un’entità altra rispetto alla vita, compiuta in sé, immortale, non passibile di giudizi censori di carattere etico. È il campo che si trova “Ben oltre le idee di giusto e di sbagliato” di cui parla Rumi, il famoso poeta persiano del XIII secolo. Nella poesia che si apre con il verso (ricordando Baudelaire) la Poetessa scrive: “Nei giardini di Lesbo il dialogo / dannato d’Ippolita e Delfina / vive per sempre di autonoma parola / in sé conclusa per simbolo e metafora”

Concludo dicendo che senz’altro possiamo definire “Doppia voce” un libro palindromo, leggibile in tutti e due i sensi, in cui ritroviamo nella massima espressione i caratteri propri della poesia femminile.

Bonfiglio sottolinea come la poesia, in quanto arte, sia un’entità altra rispetto alla vita, compiuta in sé, immortale, non passibile di giudizi censori di carattere etico. È il campo che si trova “Ben oltre le idee di giusto e di sbagliato” di cui parla Rumi, il famoso poeta persiano del XIII secolo. Nella poesia che si apre con il verso (ricordando Baudelaire) la Poetessa scrive: “Nei giardini di Lesbo il dialogo / dannato d’Ippolita e Delfina / vive per sempre di autonoma parola / in sé conclusa per simbolo e metafora”