Recensione al film “È stata la mano di Dio”

di Ornella Mallo 03/12/2021

«Il cinema non serve a niente, però ti distrae. » «Da che cosa? » «Dalla realtà. La realtà è scadente. » «Ti ha detto solo questo Fellini? » « Sì. E ti pare poco? » In questo dialogo tra Fabio Schisa e il fratello, è contenuta l’essenza del film “ È stata la mano di Dio”, ultima opera di Paolo Sorrentino, per la quale il regista è candidato per la seconda volta all’Oscar nella sezione “miglior film straniero”. Il film ha vinto il Leone d’argento Gran Premio della Giuria al Festival del cinema di Venezia. La citazione fa riferimento al cinema, ma sicuramente può essere allargata a tutte le produzioni artistiche dell’uomo: la letteratura, la poesia, la pittura, il teatro, la scultura. “L’utilità dell’inutile”, diceva nel suo famoso saggio Nuccio Ordine. Scriveva Adriana Zarri: “ Ci manca il senso del gratuito e quando chiediamo: «A che serve? » intendiamo il servizio come pura produttività. Ma in questo senso Dante non serve, Bach non serve; facendo un salto, Dio, nemmeno lui, serve. Se non vogliamo concepirlo come un mago, a servizio del nostro mal di denti, è un bene del tutto improduttivo. Così non serve la preghiera, come non serve l’arte, la fantasia, l’amore, il gioco, la festa… beni tutti disinteressati, gratuiti, oziosamente inutili.” La necessità di salvarsi da una realtà che non sempre gratifica, perché intrisa della menzogna e della mediocrità dei comportamenti degli altri, per non dire del dolore che deriva da certi eventi, porta l’uomo a produrre qualcosa di non concretamente monetizzabile, ma che non per questo è meno necessario dei beni materiali: l’arte. Nel caso di Sorrentino, il cinema ha avuto sicuramente la funzione di aiutarlo a superare il forte trauma che ha subito a seguito della perdita dei genitori, morti entrambi per una fuga di monossido di carbonio, mentre si trovavano nella casa di Roccaraso, dove si trovavano per il week end. Fabio è stato sottratto al loro destino proprio dalla mano di Dio, per dirla con lo zio. Avrebbe dovuto seguirli, come faceva sempre. Ma resta a casa per vedere giocare Maradona. Da qui il titolo del film, che definire un’autobiografia, è riduttivo. Infatti è un’opera corale, in cui converge l’esistenza umana in tutti i suoi aspetti: dall’amore al tradimento, dalla sensualità alla volgarità, dall’ironia al dramma, dalla presenza alla perdita; dal destino che incombe ineluttabile, alla volontà di fronteggiarlo, diventando artefici della propria vita. Fabio, il protagonista del film, altri non è che Sorrentino stesso, ritratto all’età di 17- 18 anni. Un’età delicata, che vive pronunciando pochissime parole, ma guardando, guardando intensamente tutta la realtà che lo circonda. “Guardare è l’unica cosa che so fare”, dice. Il personaggio è interpretato da un bravissimo Filippo Scotti, che porta, come Sorrentino, un orecchino al lobo sinistro, e che riesce, col suo sguardo a volte sognante, a volte smagato, a rendere esteriore l’interiorità del regista. Per questa interpretazione il giovanissimo attore ha vinto il Premio Mastroianni.​

Afferma il regista: “Quando subisci un trauma come quello di perdere i genitori da giovane, per certe cose diventi adulto di colpo, per altre resti ragazzo per sempre.” Così il film è contrassegnato da un’armoniosa alternanza tra una visione fanciullesca della vita, scherzosa e candida, fino a sfociare nell’onirico e nella magia, e una visione assolutamente cruda, veritiera al punto da diventare drammatica e dolorosa. Fabio è affiancato da un fratello che insegue il mito del cinema, e che per questo si presenta ai provini di Fellini, di cui si sente solo la voce. Verrà scartato, in quanto la sua faccia sarà giudicata dal regista “degna di un cameriere di Anacapri”. Accanto a loro, una sorella invisibile ma presente, che vive chiusa in gabinetto, e di cui si vedrà il viso piangente solo alla fine del film. Una bellissima metafora di come, nella vita, si può essere presenti senza esserlo concretamente, o assenti pur essendo presenti. Anche lei, pur chiusa nel suo microcosmo, è un’acuta osservatrice di una realtà che percepisce in tutta la sua drammaticità. E non è un caso che a Fabio verrà vietato di vedere i volti dei genitori da morti. Una riconferma di come la presenza possa improvvisamente dissolversi senza lasciare il vuoto: diventa immanente, sottesa. Saverio e Maria sono rispettivamente il padre e la madre di questa famiglia. Si riconferma vincente la coppia Sorrentino-Servillo, visto dal regista non più come “fratello maggiore”, ma addirittura promosso al ruolo di padre, che pur innamoratissimo della moglie, la bravissima Teresa Saponangelo, è capace di tradirla, fino ad avere un figlio da un’altra donna. Intenso il rapporto che lega Fabio alla madre: commovente l’empatia tra i due, che porterà Fabio a singhiozzare in modo convulso, sentendo come proprio il dolore che prova lei alla scoperta del tradimento. Insomma, un vero e proprio matrimonio all’italiana, borghese, che resiste agli urti anche per un fatto di comodità, come dice Maria al figlio. Un figlio sensibile al fascino della zia Patrizia, conturbante e al tempo stesso infelice, fino al punto di diventare pazza, interpretata da una bellissima Luisa Ranieri. La donna, protagonista assoluta di tutte le sue fantasie erotiche, sarà la Musa di tutta la sua vita. Sullo sfondo, una Napoli dipinta come il centro del mondo, ripresa nella sua eleganza e nella sua maestosità. Una città non vuota e metafisica, come la Roma de “La grande bellezza”, ma ricca di folklore e viva, anche se il cinema spezza il suo crudo realismo, cospargendola di sogno e rallentandone il ritmo, in una evidente citazione felliniana. Altro grande regista citato è Pasquale Capuano, mentore di Sorrentino, che per lui ha lavorato firmando la sceneggiatura di un suo film. Ma c’è anche il teatro che irrompe, anch’esso col compito di allontanare lo sguardo dalla realtà. Numerosissimi e bravissimi i personaggi minori, che hanno il compito, insieme ai protagonisti, di disegnare un affresco minuzioso della Napoli degli anni ottanta, “anni innocenti”, per dirla col regista. Su tutto e tutti campeggia la figura di Diego Maradona, di cui non si vede l’arrivo, ma che è lì, nel campo di calcio e per le strade, a regalare la speranza di un mondo migliore ai napoletani. E’ del campione l’esergo del film: “Ho fatto quello che ho potuto, non credo di essere andato così male.” Una citazione che va benissimo anche per Sorrentino, che viene ritratto, alla fine, mentre lascia Napoli per fare cinema a Roma. E ancora potrei scrivere su questo film, elogiandone la fotografia e la sceneggiatura. Da vedere, per la miriade di riflessioni sulla vita che sollecita nello spettatore.

(fonte immagine: facebook)

Afferma il regista: “Quando subisci un trauma come quello di perdere i genitori da giovane, per certe cose diventi adulto di colpo, per altre resti ragazzo per sempre.” Così il film è contrassegnato da un’armoniosa alternanza tra una visione fanciullesca della vita, scherzosa e candida, fino a sfociare nell’onirico e nella magia, e una visione assolutamente cruda, veritiera al punto da diventare drammatica e dolorosa. Fabio è affiancato da un fratello che insegue il mito del cinema, e che per questo si presenta ai provini di Fellini, di cui si sente solo la voce. Verrà scartato, in quanto la sua faccia sarà giudicata dal regista “degna di un cameriere di Anacapri”. Accanto a loro, una sorella invisibile ma presente, che vive chiusa in gabinetto, e di cui si vedrà il viso piangente solo alla fine del film. Una bellissima metafora di come, nella vita, si può essere presenti senza esserlo concretamente, o assenti pur essendo presenti. Anche lei, pur chiusa nel suo microcosmo, è un’acuta osservatrice di una realtà che percepisce in tutta la sua drammaticità. E non è un caso che a Fabio verrà vietato di vedere i volti dei genitori da morti. Una riconferma di come la presenza possa improvvisamente dissolversi senza lasciare il vuoto: diventa immanente, sottesa. Saverio e Maria sono rispettivamente il padre e la madre di questa famiglia. Si riconferma vincente la coppia Sorrentino-Servillo, visto dal regista non più come “fratello maggiore”, ma addirittura promosso al ruolo di padre, che pur innamoratissimo della moglie, la bravissima Teresa Saponangelo, è capace di tradirla, fino ad avere un figlio da un’altra donna. Intenso il rapporto che lega Fabio alla madre: commovente l’empatia tra i due, che porterà Fabio a singhiozzare in modo convulso, sentendo come proprio il dolore che prova lei alla scoperta del tradimento. Insomma, un vero e proprio matrimonio all’italiana, borghese, che resiste agli urti anche per un fatto di comodità, come dice Maria al figlio. Un figlio sensibile al fascino della zia Patrizia, conturbante e al tempo stesso infelice, fino al punto di diventare pazza, interpretata da una bellissima Luisa Ranieri. La donna, protagonista assoluta di tutte le sue fantasie erotiche, sarà la Musa di tutta la sua vita. Sullo sfondo, una Napoli dipinta come il centro del mondo, ripresa nella sua eleganza e nella sua maestosità. Una città non vuota e metafisica, come la Roma de “La grande bellezza”, ma ricca di folklore e viva, anche se il cinema spezza il suo crudo realismo, cospargendola di sogno e rallentandone il ritmo, in una evidente citazione felliniana. Altro grande regista citato è Pasquale Capuano, mentore di Sorrentino, che per lui ha lavorato firmando la sceneggiatura di un suo film. Ma c’è anche il teatro che irrompe, anch’esso col compito di allontanare lo sguardo dalla realtà. Numerosissimi e bravissimi i personaggi minori, che hanno il compito, insieme ai protagonisti, di disegnare un affresco minuzioso della Napoli degli anni ottanta, “anni innocenti”, per dirla col regista. Su tutto e tutti campeggia la figura di Diego Maradona, di cui non si vede l’arrivo, ma che è lì, nel campo di calcio e per le strade, a regalare la speranza di un mondo migliore ai napoletani. E’ del campione l’esergo del film: “Ho fatto quello che ho potuto, non credo di essere andato così male.” Una citazione che va benissimo anche per Sorrentino, che viene ritratto, alla fine, ​mentre lascia Napoli per fare cinema a Roma. E ancora potrei scrivere su questo film, elogiandone la fotografia e la sceneggiatura. Da vedere, per la miriade di riflessioni sulla vita che sollecita nello spettatore. Ornella Mallo