È una voce rotta dall’emozione quella di Gianluca Calì, mentre parla al telefono in questo inverno rigido. La sua, è una voce che grida, chiede, che fa domande alle quali si può rispondere solo con frasi fatte o con il silenzio.

Sono domande che mettono il dito sulla piaga della legalità e sui tanti perché che pone il proprietario della CALICAR. Quella che, però, campeggia su tutti chiede: “Ma come possiamo combattere l’illegalità quando la gente comune, magari proprio quella che dimostra solidarietà, quella che con le sue pacche sulle spalle a parole ti dichiara il suo esserti vicino, poi la vedi non certo rispettare tutti i criteri del consumo critico?”.

Gianluca Calì è amareggiato, oltre che arrabbiato. Amareggiato perché, malgrado abbia sempre agito rispettando i canoni dell’imprenditoria legale, fatturando oltre venti milioni di euro all’anno e dando da mangiare a venti dipendenti, adesso si ritrova a non avere più niente. Gli ultimi due impiegati li ha dovuti licenziare proprio a fine 2016 e, da quel nutrito parco macchine che possedeva, oggi il suo autosalone sembra il fantasma di quello degli anni migliori.

È arrabbiato Calì per il solo fatto che, dopo avere denunciato i danneggiamenti subiti e le continue richieste di estorsione, facendo arrestare i boss di quello che una volta era descritto come il triangolo della morte, oggi si ritrova a subire una sorta di boicottaggio da parte dei suoi compaesani. Questo perchè, dal momento che ha detto no alle vessazioni a cui era sottoposto, la comunità prima a lui vicina si è inspiegabilmente chiusa a riccio, prediligendo quello stato di cose che porta a farsi gli affari propri, invece di immischiarsi in cose che apparentemente non le appartengono.

È amareggiato l’imprenditore perché avrebbe voluto trovare nelle persone una solidarietà fattibile e non fatta solo di vuote parole.  È arrabbiato soprattutto in quanto lo Stato italiano ancora non gli ha riconosciuto quello che la legge su chi denuncia il racket prevede e cioè un contributo economico che avrebbe e potrebbe arginare le pressioni bancarie sul rientro dei debiti accumulati, permettendogli di pagare le utenze e di continuare a mantenere quei padri di famiglia che, invece, piano piano ha dovuto licenziare.

Si, è arrabbiato Gianluca Calì anche perché, malgrado la sua condizione di testimone di giustizia, nessuno si è preso la briga di dargli una tutela, così ha dovuto comprarsi di tasca propria una macchina blindata, peraltro usata. Nel frattempo, a Milano gli veniva revocato il porto d’armi perché, secondo gli inquirenti, “non sussistono le condizioni per una difesa armata”. Così, alla domanda su cosa intende fare adesso, Gianluca  risponde: “Sto pensando veramente di chiudere e andare via. Quello che, però, dico é che, se tutti andiamo via, lasciamo questa bellissima terra che ci appartiene di diritto nelle mani dell’illegalità diffusa”.

E, visto che la sua azienda continua ad andare in perdita, Calì ha appeso davanti alla rete di recinzione uno striscione con su scritto “Vendesi o Affittasi, deciso a cedere i locali in cui è rimasto un minimo di attività, continuando a masticare amaro e rimuginando sul fatto che forse la legalità non paga.

È  ovviamente uno sfogo quello del proprietario della CALICAR per il senso di isolamento in cui versa e la delegittimazione che vive, marcando il fatto che, se si vuole fare una seria lotta alla mafia e all’illegalità diffusa, lo Stato deve intervenire con tutti i mezzi che ha a disposizione. Altrimenti, da parte degli imprenditori e dei cittadini comuni, verrà fuori sempre la solita frase, “ma chi me lo fa fare?”, e ogni battaglia avrà sempre l’amaro sapore di una sconfitta. Proprio mentre un’antimafia professionale e di facciata non fa nulla per questa imprenditoria che lentamente muore.

Liborio Martorana