di Marina Caserta

7 Febbraio 2015, pomeriggio

“Riesce a dire qualcosa di comprensibile?” Il detective Spalletti, di origini italiane, ma newyorkese da generazioni, era un colosso. Incuteva paura perfino a criminali incalliti, per il suo aspetto minaccioso. Era alto come un armadio e grosso il doppio. Niente di tutto questo era grasso, solo un ammasso di muscoli. La testa lucida e i baffi folti accrescevano il suo aspetto feroce. Poco importa che in realtà avesse un animo gentile e, per hobby, il giardinaggio.

Il suo aspetto sul lavoro a volte era di grande aiuto, come quando si trovava faccia a faccia con qualche teppistello dal pugno facile, ma era sempre d’intralcio negli interrogatori, soprattutto di fronte a gente in evidente stato di shock, come il poveretto che aveva davanti. Il luogo del delitto presentava molteplici interrogativi e quell’uomo era  davvero un poveretto? I fatti sembravano dire il contrario, ma il suo istinto gli urlava che quell’uomo, che tremava come una foglia ed aveva un colorito verde acido, era innocente

“Continua a dire che è stato un mostro dagli occhi verdi.” Rispose l’agente scuotendo la testa.

“Che potrebbe significare che è stato lui in preda a un raptus di gelosia.” Anche perché non c’erano molti altri indiziati: per entrare avevano dovuto sfondare la porta, chiusa dall’interno e col chiavistello. Li aveva chiamati la vicina, impaurita dalle grida che echeggiavano attraverso i muri sottili.

L’agente donna era giovane e lo guardava con espressione vacua, evidentemente non conosceva il paladino Orlando, Otello il Moro e ciò che poteva fare la gelosia. Era questo il problema delle nuove generazioni, secondo il detective: poca cultura e troppa fretta di arrivare. Sospirò e tornò a dedicare la propria attenzione all’uomo che era accucciato all’ angolo della stanza. Era coperto di sangue, sul volto rosso spiccavano gli occhi: due pozzi di terrore; anche i capelli, adesso di un colore indefinibile, erano coperti di sangue secco.

Fece indugiare lo sguardo in tutta la stanza, di nuovo, con metodo. Era come se tutto fosse stato riverniciato di vernice rosso scuro. La scientifica avrebbe avuto molto lavoro da fare.  Aspettavano anche il medico, non il medico legale, ma un medico vero, che desse un calmante all’omino nell’angolo. L’altro medico, quello legale, era al lavoro da un paio d’ore. Stava più o meno ricomponendo un puzzle.

L’omino ripeteva solo “E’ uscito dalla bocca e l’ha fatta a pezzi. Ed è…evaporato!” E tremava e ricominciava daccapo, senza sosta.

 

 

 

02 Gennaio 2015

Elizabeth si guardava allo specchio, compiaciuta, era una bella ragazza alta e con la pelle candida. Il viso era spruzzato di lentiggini a tradire la sua origine irlandese, i capelli ricci e rossi. Era magra, ma non tanto da non avere le curve al posto giusto e gli uomini si giravano spesso a guardarla.

Guardò suo marito addormentato sul loro letto king size, i suoi tre nasi e le sei membra, tra gambe e braccia, erano mollemente abbandonate sulle coperte. Ghandalf veniva da Saturno, un pianeta per tutti senza vita applicando parametri terrestri a mondi che terrestri non erano. Così facendo non si sarebbe trovata vita da nessuna parte. Era arrivato sulla terra con una navetta aliena qualche anno addietro, la loro civiltà era molto più sviluppata ed erano abituati alle spedizioni esplorative, aiutati dal fatto che riuscivano a mimetizzarsi perfettamente tra le creature del pianeta che stavano studiando e ad adattarsi al loro ambiente. Il loro unico limite era che dormendo riprendevano le sembianze originarie e questo trasformava il sonno in un atto piuttosto delicato per la Legione degli Esploratori, cui apparteneva Ghandalf. Infatti, gli esponenti di tale scelto contingente potevano dormire solo una volta chiusi nella navicella, costruita con una lega che la rendeva quasi indistruttibile. Non del tutto però, e infatti era andata distrutta.

 

Elizabeth lo aveva trovato dopo che la navicella aveva avuto un incidente. Era solo, perché il resto dell’equipaggio era morto ed era evaporato come accadeva in questi casi. Lui era gravemente ferito ed aveva perso uno dei suoi tentacoli superiori, che lei si ostinava a chiamare braccia. Non si era spaventata, chissà come, forse perché quell’essere alieno aveva aperto gli occhi e le aveva subito detto di non avere paura e che non aveva alcuna intenzione di farle del male. Lei era sempre stata diffidente, ma stranamente gli aveva creduto, forse perché lui aveva lo sguardo più gentile che si potesse immaginare. Elizabeth sospettava che c’entrasse anche il fatto che, da quando si era svegliato, si era trasformato in un pezzo d’uomo.

Senza riflettere lo aveva portato a casa, lo aveva curato e si era fatta raccontare la sua storia. Il suo nome umano era Mark. Le aveva spiegato ogni cosa: come riuscisse a trasformarsi, quanto amasse viaggiare e ascoltare la musica. Lentamente si erano innamorati e lei gli aveva insegnato tutti gli usi umani del caso.

E il tentacolo perso era ricresciuto.

Per ottenere il permesso di dormire con Elizabeth, Ghandalf aveva dovuto chiedere migliaia di permessi e scrivere domande su domande, sfidando l’intricata burocrazia saturniana, simile a quella italiana, tra le più intricate burocrazie terrestri. Si era anche dovuto sottoporre a una lunga terapia di decondizionamento, per convincere se stesso che poteva dormire accanto a quella donna, senza conseguenze.

A distanza di anni erano ancora innamorati e felici, mancava, per completare la loro felicità, soltanto  la possibilità di avere un figlio. Elizabeth sapeva che non avrebbero mai potuto averne uno, troppo diverso era il modo di riprodursi delle due specie: su Saturno gli abitanti, sia maschi che femmine, entravano in una specie di capsula, in un periodo che più o meno equivaleva ai sessanta anni di età umana, e si rigenerava. Questo processo la incuriosiva moltissimo, non riusciva a comprenderlo del tutto e probabilmente non ci sarebbe mai riuscita, inutile lambiccarsi il cervello, sapeva che certe esperienze vanno provate, e basta.

Lo guardò, mentre dormiva beato…Era un uomo meraviglioso, da tutti punti di vista, e lei era abbastanza certa che le fosse fedele. Innanzi tutto, Ghaldalf era bravissimo a utilizzare tutte e sei le sue vere membra per darle piacere, ma non sapeva che farsene della sua appendice umana, che non riusciva a stare dritta. E poi, anche se un’altra donna fosse riuscita a farla raddrizzare per il tempo necessario, Elizabeth rideva pensando all’espressione che avrebbe fatto questa fantomatica rivale quando Mark, che si addormentava sempre dopo il sesso, si fosse trasformato in Ghandalf: un ammasso di gelatina tentacolare, seppure con gli occhi verdi, come i suoi. Insomma, era una delizia a letto, ma dubitava che altre donne avrebbero avuto il fegato di provarlo.

Se era abbastanza sicura della fedeltà del marito, Elizabeth non poteva dire lo stesso della propria. Ogni tanto sentiva il bisogno di avere accanto a sé un uomo che conoscesse gli usi e i costumi e al quale non dovere spiegare che “sei la mia troia” poteva essere detto solo in alcuni contesti e non a una festa elegante, dove le avances di un balordo l’avevano messa in un imbarazzo tale che aveva tagliato i ponti con tutti i presenti.

Per farla breve, ogni tanto si concedeva un passatempo con un amico speciale. Non aveva niente di speciale, in realtà, se non che a letto era straordinario, per il resto era un ometto anonimo e senza pretese.

Mark, o Ghandalf, ne era al corrente e non se ne faceva un gran problema, anche perché non capiva l’importanza che davano gli umani a questo tipo particolare di ginnastica. Lui, dal canto suo, era stato stregato dal basket, che trovava più coinvolgente. Poiché per sua moglie era importante, però, non aveva trovato nulla da obiettare al fatto che si divertisse con altri. L’aveva solo pregata di non addormentarsi con lui, perché questo avrebbe cambiato le cose per sempre.

 

 

6 Febbraio 2015, pomeriggio

Elizabeth aveva goduto a lungo della compagnia premurosa di John. Non era stata bene nei giorni precedenti, per via di un mal di testa incessante, che soltanto adesso, dopo un antinfiammatorio e due ore di buon sesso, si era attenuato. John era stato generoso come al solito, forse perfino di più. Lentamente, senza rendersene conto si erano assopiti entrambi.

 

6 Febbraio 2015, sera

Ghandalf aveva sentito la moglie addormentarsi dall’altra parte della città. Sapeva che era con un altro uomo, in sintonia emotiva. L’aveva pregata di evitarlo, era l’unica cosa che le aveva chiesto. Non era riuscito a farle capire la pericolosità della cosa. Elizabeth non aveva compreso cosa avesse scatenato e non sapeva che Ghandalf non avrebbe potuto opporsi alla sua natura, neanche volendo.

Comparve nel sogno di Elizabeth. Lei capì subito di avere commesso un errore. Ghandalf non era lui, in qualche modo. Cioè, sembrava lui, ma era diverso. Erano diversi i suoi occhi, solitamente così dolci e gentili, adesso così terribili. La pupilla si era dilatata e aveva due gorghi verdi ribollenti di odio, al posto dei soliti due laghi quieti.

Elizabeth lottò per svegliarsi, ma non ce la fece. Lui la chiamò, la sua voce solitamente profonda era adesso quella di un bambino di due anni e questo rendeva quel corpo gelatinoso con gli occhi terribili ancora più minaccioso.

“Te l’avevo detto” disse con voce piatta

“Perdonami, non volevo, ero stanca.  Appagata.” Questo non avrebbe voluto dirlo, ma non riuscì a fermarsi, fu come se Ghandalf la costringesse a dire tutto quello che le passava per la testa, solo guardandola. Capì di essersi spinta troppo in là, ma non poteva fare niente, la sua bocca non le rispondeva. Lei urlava, ma a John, che la guardava dall’esterno sembrava solo che stesse facendo un brutto sogno. La toccò, per svegliarla.

Ghandalf sentì quel tocco e ne fu ulteriormente addolorato, le spalancò le mascelle con uno scatto fulmineo e si materializzò nella stanza, non curandosi di coprire le sue sembianze.

John urlò, vedendo quella cosa gelatinosa fuoriuscire dalla bocca di Elizabeth. Lei provava a opporsi, sebbene sapesse che la forza del marito fosse enorme. La mandibola si ruppe con uno schianto terribile.

Ghandalf vide, nel cucinino della stanza, una mannaia e l’afferrò; per un attimo i suoi occhi tornarono normali, porse la mannaia a Elizabeth e disse “Ti prego, uccidimi!”

Lei scosse la testa piangendo, non poteva parlare a causa della mandibola fratturata, ma i suoi occhi esprimevano fermezza e dolore in egual misura. Non lo avrebbe ucciso.

“Uccidimi, o dovrò ucciderti.”

“Oddio! Oddiooddioodido! Che cos’è?” gridava John. Poi cercò di strappare la mannaia, ma Ghandalf gli diede un colpo con uno dei tentacoli e lo mandò a sbattere contro la parete ad angolo, dove rimase fino alla fine. La violenza fu tale che svenne.

Quando si risvegliò vide che Elizabeth non aveva più il piede destro, dal moncone zampillava sangue e la pelle, già pallida, aveva il pallore della morte. Gli occhi però erano ancora fermi e risoluti. Ghandalf strillava con vocetta sempre più acuta. Più gli occhi erano fiammeggianti, più la voce diventava sottile, “Uccidimi”.

Elizabeth scuoteva il capo, non lo avrebbe ucciso, né ora né mai, si sentiva colpevole. Sperava che la rabbia di Ghandalf svanisse, ma Ghandalf non poteva calmarsi, apparteneva alla Legione degli Esploratori e, su Saturno, sarebbe stato giudicato per non avere saputo proteggere il sonno della sua famiglia. Ciò che non aveva mai detto a sua moglie per scaramanzia o perché riteneva impossibile che si verificasse era che per andare via, doveva uccidere l’abitante del pianeta che gli era stato più vicino.

Non c’erano altre vie, era la sua natura. E non era mai riuscito a spiegarlo bene a Elizabeth. In fondo l’amore non poteva superare tutte le differenze.

Finì di tagliarla e scomparve.

Rubrica a cura di Fabrizio Vasile

fonte immagine: web