Il lavoro di un medico di reparto, oggi come oggi è fatto da un mix letalmente noioso di burocrazia e routine: apri la cartella, chiudi la cartella, compila la SDO, la STU e mille altre sigle per cui, a volte, non mi ricordo neppure cosa stia facendo.

Copia la terapia, compila il foglio del dolore, riempi il modulo della privacy, firma il modulo del consenso. Siamo sommersi dalle scartoffie e al paziente, in alcuni giorni, dedichiamo molto meno che agli adempimenti burocratici.

Il resto del tempo, se ne rimane, ci azzuffiamo per le guardie. Ovvio, siamo sempre troppo pochi e sempre più stressati.

Ma c’è un momento in cui tutto questo passa, improvvisamente, in secondo piano. Ed è il momento in cui si capisce chi fa il medico per passione e chi no. È il momento in cui un paziente sta male, male davvero.

Sono pediatra.

Quando un bambino sta male davvero, il cuore sanguina il doppio e gli sforzi si triplicano. Quello è il momento in cui tutto il resto scompare. In cui vale la pena esserci. È il senso della nostra vita, nonostante tutto.

Nella difficoltà ci ricordiamo chi siamo e perché siamo qui, perché la domenica non siamo a mare con la nostra famiglia, perché sacrifichiamo sempre e solo i nostri affetti e la nostra vita privata, spesso divorati dai sensi di colpa, a volte senza neppure un grazie.

L’ospedale è quel posto in cui l’infermiere sa già dal passo che ho, se è meglio ridurre i contatti all’indispensabile o se prendermi in giro.

È quel posto in cui i ruoli non c’entrano niente, perché se l’infermiere sa fare, fa anche più di me, mi aiuta, mia suggerisce. Lavoro di squadra, non di piramide.

Quando un bambino, un paziente, sta male sul serio, capisci che l’ospedale è un microcosmo, un universo parallelo, in cui vigono delle regole che non valgono nel mondo esterno, che chi vive fuori non può capire.

E quello è il momento in cui si capisce chi sei e su chi puoi contare.

È il momento in cui il collega con cui hai litigato un’ora prima, contendendoti il fine settimana libero, come due cani un osso, arriva accanto a te e ti aiuta. Per il bambino, certo, ma anche per te. Perché nessuno vorrebbe essere solo in un momento di difficoltà.

Alzi il telefono e non hai nemmeno bisogno di finire la frase, a volte. Il collega arriva.

Arriva dalla neuropsichiatria, dalla nefrologia, dalla rianimazione.

Arriva anche se non è lo specialista che serve in quel momento. Arriva perché si siede accanto a te e ti dice: aspetta, pensiamoci insieme. E tu rispondi: cosa può essermi sfuggito?

Perché il medico nella vita reale non capisce al primo sguardo. La vita non è un telefilm.

Il medico ha in mente una mappa, che lo guida nella diagnosi e nella terapia. Ed è una mappa piena di bivi, ad ogni bivio una decisione da prendere.

A volte in un attimo, mentre aspetti gli esami che arriveranno tra due ore.

Devi capire, immaginare, valutare.

A volte solo con il tuo istinto.

Salvo, a casa, a turno finito, rigirarti nel letto. Salvo chiederti mille volte: potevo fare diversamente?

Non conosco un medico che non si sia portato a casa lo strascico di una guardia difficile.

Nessuno di noi è infallibile, nessuno di noi vorrebbe sbagliare. A volte, succede, siamo umani. Ma noi non possiamo. Noi non abbiamo il tempo e la possibilità di tornare indietro. Lo stress ci divora, ma siamo sempre qui.

E, ad urgenza finita, si compila la STU.

Pronti a ricominciare, ancora una volta.

Marina Caserta