di Ornella Mallo 17/11/2023

Ne “Il cammino verso il linguaggio” Martin Heidegger scrive: “Si dice che l’uomo è per natura parlante e vale per acquisito che l’uomo, a differenza delle piante e dell’animale, è l’essere vivente capace di parola. Dicendo questo, non s’intende affermare soltanto che l’uomo possiede, accanto ad altre capacità, anche quella del parlare. S’intende dire che proprio il linguaggio fa dell’uomo quell’essere vivente che egli è in quanto uomo. […] Per questo non è meraviglia se l’uomo, non appena prende, riflettendo, visione di ciò che è, subito s’imbatte nel linguaggio.” Il linguaggio dunque non solo è una peculiarità che caratterizza l’uomo in quanto tale, ma è anche lo strumento che rende possibile una comunicazione tra gli esseri umani, una veicolazione di idee foriera di accrescimento personale da un punto di vista individuale, sociale da un punto di vista collettivo. Permette dunque di parlarsi, non soltanto di parlare, perché, come osserva Eugenio Borgna, “la chiave per una comunicazione autentica è la capacità di armonizzare la nostra esperienza del tempo con quella degli altri, sani o meno che siano, lo sforzo di immedesimarci nei loro pensieri, di farci carico delle loro ferite, di condividere i loro desideri. Di donarci reciprocamente (la radice della parola comunicazione è nel latino munus, dono), ciascuno con le proprie incertezze e fragilità, anche, paradossalmente, quando il dialogo è con noi stessi.” La comunicazione è però resa possibile dalla sua comprensibilità. E, per essere comprensibile, deve divulgare contenuti attuali, al passo con i tempi, e non deve servirsi di un linguaggio aulico, poiché non rispecchia quello parlato dalla massa, col risultato di essere circoscritto a una cerchia ben definita della popolazione. La poetessa Giuseppina Biondo, quindi, con “Lingua di mezzo” sdogana la lingua da una dimensione forbita e anacronistica, dal politicamente corretto, e la veicola verso una dimensione realistica e contemporanea. Questa operazione di svecchiamento include anche la poesia, dal momento che scaturisce dalla lingua, e la apre al nuovo. “Sulla lingua c’è la moneta, / mi hai detto. Quel sogno si collega / alla lingua di mezzo”, leggiamo nei suoi versi, ossia si tiene conto della realtà di un linguaggio che si diffonde in modo inesorabile, senza possibilità di arresto, esattamente come una moneta. “Tanto, anche se vi opponete, / siamo nel bel mezzo di una lingua nuova, / una lingua di mezzo.” Questo linguaggio richiede anche un adeguamento dei fonemi di cui si serve la scrittura. In particolare, Biondo include tra i caratteri la schwa, un simbolo attinto dall’alfabeto fonetico internazionale (IPA), che fa parte dei vowel sounds, il cui suono vocalico è medio, non arrotondato. Questo fonema apre a un terzo genere che si affianca al maschile e al femminile, il genere neutro, includente coloro che sessualmente si dichiarano fluidi, non-binary. Il suo utilizzo permette loro di sentirsi presi in considerazione in qualsiasi contesto. Scrive la poetessa: “abbiamo trovato una neutralità, / un neutro per il lettore che ora / sarà chiamato a immaginare per sé / l’una o l’altra, o altra ancora / soluzione. […] Il lettore più libero di vedere se stesso […] Potrebbe vedere / il proprio sé prima di quanto / abbiamo sempre fatto.” D’altra parte, la letteratura non deve essere un museo, osservano i sostenitori dell’uso della schwa, che viene impiegata disinvoltamente dai giovani grazie alla diffusione che ne hanno fatto i social media. In alcune aree del mondo si utilizza ormai quotidianamente, solo in Italia costituisce oggetto di un dibattito divisivo, anche perché l’apertura al nuovo viene osteggiata da una cultura reazionaria e sessista. Biondo invece vede nell’uso di questo simbolo una svolta verso una società finalmente inclusiva, in cui viene praticato un amore libero da tutti quei tabù che causano, nei soggetti che non si riconoscono nel genere maschile e femminile, frustrazioni, senso di inadeguatezza e infelicità. Scrive: “Gioca senza pensare / al sesso che hai. Sì, sii tutto / ciò che sei. A me sta bene.” In un’altra poesia esplica ancora più chiaramente questo concetto: “Vorrei che leggeste ora le schwa / con le vocali che più sentite / vostre. Insomma il lettore / può farsi autore, e proiettare / nei protagonisti di altri / i propri. Rileggete così.” Del resto, se riflettiamo, anche Dante apriva all’uso del volgare, e usava neologismi per esprimere concetti che non trovavano vocaboli adeguati nella lingua corrente. Biondo cita neologismi attinti dalla lingua di oggi come ‘intrenare’, per fare un esempio, o ‘snitchare’. Molti grandi poeti – e la poetessa ricorda Catullo, il Panormita, Valduga, Nove – non solo hanno adoperato la lingua parlata per le loro poesie, senza edulcorarla, ma si sono serviti anche delle parolacce, il cui uso in poesia viene caldeggiato dall’autrice: “Io non capisco perché diciamo / a ogni ragazz* di non dire parolacce. / A me piacciono, danno sfumature al linguaggio.” Biondo ammette anche l’uso transitivo di verbi intransitivi in poesia: “Io voglio poter dire: esci / la lingua dalla bocca, sali / le valigie e tutte le borse, scendi / la pasta o il cane.” Per quanto riguarda i costumi sessuali, ai tempi dei greci e soprattutto dei romani era praticata una libertà soffocata successivamente dall’avvento del cattolicesimo. Ma se leggiamo Saffo o Catullo, ci rendiamo conto dell’universalità dell’amore, che prescinde dal genere delle persone tra cui intercorre. L’amore cantato da Whitman, più volte citato dall’autrice. Scriveva Whitman in “Specimen days”: “La repressione della propria natura adesiva trasforma l’esistenza in un tormento”. Scrive di rimando Biondo: “Sembra che le parole di Whitman / siano diventate questo oggi: / bisogno e libertà di dirsi / piccoli e molteplici / contemporaneamente.” In un’altra poesia spiega: “Schwa per me significa amore. / Potrei anche usare i pronomi al plurale, / dire di me maschiaccio e di me principessa, / se questo bastasse a spezzare l’impedimento / che l’universo – so che è l’universo – / mi dà. Ma cosa interessa all’universo, / cosa vuole, perché reclama l’onestà, / tutto vuole che si metta in evidenza / una cosa che non si dice ma che già si vede? / Non vale come per i romanzi, quando / si dice che si deve non dire, ma solo mostrare?” Le poesie sono datate, e si susseguono una dietro l’altra come pagine di un diario. Le poesie della prima sezione sono state composte nell’arco di tempo compreso tra il mese di gennaio del 2022 e il mese di luglio dello stesso anno. Quelle della seconda sezione, intitolata “Linguacce”, sono state scritte invece nel 2021, e sono riflessioni sulla lingua adoperata nei social dalla gente comune. Osserva la poetessa: “Cosa rimarrà delle parole incomprensibili? Dove andranno? / Se invece prendi un video trash, esso si diffonderà. / È sempre la stessa lezione di Dante e Barabba.” Ecco che la lingua si fa linguaccia, termine adoperato dalla poetessa con un intento ironico e provocatorio. Scrive: “Cmq vorrei scrivere / una raccolta di poesie trash / Che poi, davvero, chi se ne frega del metro oggi / O del suono falso di certe parole messe lì, sbagliate / Ma pensate argute da alcuni. No, io preferisco il racconto, e il trash è la migliore narrazione […]” E conclude: “Una raccolta trash / potrebbe aiutare il flusso e far scattare ricordare / gli intelletti di oggi, da cui poi nasce la poesia dell’uomo.” Quindi la poesia di Biondo presenta una forma prosastica, fluida, non ingabbiata in schemi metrici che mostrano il segno dei tempi: “Sta curvando la mia / poesia, come fosse concava o convessa – non ricordo la sua / geometria.” Quella che deve emergere dai versi è la visione essenziale delle cose. Scrive: “Si pensa che in poesia il contrasto derivi dall’ossimoro / soltanto. / Ma spesso c’è un contrasto di pensiero: la poesia / che acceca e rende chiaro.” Che la ricerca interiore non sempre porti chiarezza, nonostante la poesia, è un dato acclarato. Si pensi alle riflessioni di Pavese, contenute nel dialogo tra Orfeo e la Bacca ne “L’inconsolabile”: rivolgendosi alla Bacca, Orfeo asserisce: “Non è il sangue ciò che conta, ragazza. Né l’ebbrezza né il sangue mi fanno impressione. Ma che cosa sia un uomo è ben difficile dirlo. Neanche tu, Bacca, lo sai”. Il controcanto della poetessa è: “Sono di un’ignoranza spaventosa. / Ho letto Millay ma non la conosco bene. / Ho letto Woolf ma non la conosco bene. / Ho letto Sackville – West ma non la conosco bene. / Ho letto anche Biondo e non la conosco bene.” Più si scende negli abissi dell’interiorità, più diventano imperscrutabili. E in un mondo che risente della confusione degli individui che lo abitano, l’unica chiarezza può essere apportata da valori come l’amore e l’amicizia: « Non è la competizione, / ma la convivenza l’obiettivo delle persone. » Sull’amicizia scrive: “Amicizia, dove sei? /Ho creduto in te, / più di ogni altra cosa. / Come mai la vita ci allontana? / E come mai la vita ci avvicina / solo al momento giusto?” E sull’amore: “Innamorati. Innamorati, dai. / Io posso tentare qualsiasi cosa, / ma se tu non t’innamori, / temo di non aver trovato soluzioni, la lingua che cercavo. / Innamorati, innamorati dai. / Vorrei che la mia lingua / stesse in mezzo – alla tua.” D’altra parte, il momento storico in cui sono state scritte le poesie è quello del Covid, che ha favorito un vero e proprio exploit della poesia, dal momento che l’isolamento ha ingenerato negli animi quella speculazione filosofica prodromica alla composizione poetica. Scrive infatti la poetessa: “ È giusto parlare più di amore, di poesia / o dei nostri giorni in casa? Da me si alternano / questi temi. Li rifuggo e inseguo /contemporaneamente.” Oppure: “Se non ci fossero quarantene, / se non ci fosse più una pandemia, / sarebbe bello spogliare chiunque altro / della mascherina e collaudare labbra.” Da un punto di vista spaziale, le poesie sono ambientate nella scuola in cui insegna l’Autrice. La prefazione è stata scritta da tre alunne della seconda B, e alla 2B la silloge è dedicata. Nascono quindi da un’interazione tra professoressa e alunni, fondata sul reciproco ascolto, e soprattutto sull’accoglimento che Biondo fa della lingua dei ragazzi senza opporre alcun ostracismo. Scrive: “rubare parole nuove ai giovani e capire / il suono che a loro più si addice.” E in un’altra poesia leggiamo: “A me piace guardare le scuole di notte / passare nel dopo serata di fronte ai licei: / è come guardare le stelle, progettare, / incipiare l’età adulta.” Concludendo, la silloge “Lingua di mezzo” è sicuramente interessante, molto particolare, per questo suo dar spazio all’”adolescenza dei tempi di Instagram”. Soprattutto trovo che, con questa precisa scelta di immettere senza filtri il linguaggio dei giovani, spiani la strada alla poesia del futuro, e in questo è eversiva. Del resto Edmond Jabés scrive ne “Il libro delle interrogazioni” a cura di Alberto Folin: “In un mondo come l’attuale in cui la parola è pronunciata in modo sempre più altisonante, declamatorio, più si parla basso, più si è di disturbo. Sta lì la vera sovversione.”