di Ornella Mallo                                                                                                         01/04/2020
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Era giovedì e il Genio vigilava a Piazza Rivoluzione. Sui selciati cosparsi di carte sporche, vagava
un bambino, senza direzione, mentre il sole picchiava nell’aria afosa di agosto.
Il vento di scirocco soffiava imperterrito, e le girandole colorate, legate ai balconi, roteavano
impazzite sprigionando una luce bianca, che rendeva ancora più abbacinante l’atmosfera.
Dai pinocchietti sbiaditi, scivolavano due gambette smagrite che, camminando, lasciavano vedere le
piante dei piedi scalzi: nere, come gli occhi grandi, che guizzavano posandosi dappertutto, in cerca
di aiuto. Le lacrime scorrevano incessanti, e tracciavano solchi sulla fuliggine del viso,
intersecandosi disordinate. Il naso carnoso e le labbra prominenti gli conferivano tratti marcati. Avrà
avuto otto anni. Neri i capelli, ricci e fitti, opachi di smog; nere le palme delle mani, protese ai lati
del petto. Le agitava in modo convulso, cercando di rafforzare ciò che diceva in un linguaggio
incomprensibile agli uomini, che gli camminavano accanto indifferenti. I loro occhi di statua dritti
verso un non punto: la mera proiezione di se stessi. Correvano come tanti cavalli, che s’impongono
di non varcare la soglia dei paraocchi.
Ci sono statue, invece, che hanno occhi umani: con questi ascoltano i pianti degli uomini. Li
accolgono, li com-prendono: com-patiscono.
E così, il Genio, costretto in un corpo di pietra, lo guardava impotente: avrebbe tanto voluto
dissetarlo porgendogli l’altra mammella, quella libera dal serpente, che vorace, non mollava il suo
petto, indifferente anche lui, come tutti i passanti.
Per terra, un vento acre sospingeva una coppola dai bizzarri scacchi azzurri: la visiera gialla
accentuava quel senso di caldo opprimente, che schiacciava tutti i viandanti, costringendoli ad
un’andatura frettolosa. Sul dorso, spiccava il suo stemma: una corona, uguale a quella del genio.
I bambini sanno cos’è lo stupore: la meraviglia delle anime pure, che sorprendono il bello in tutte le
cose.
E così il ragazzino si ferma di fronte a quella coppola che, sollevata dal vento, arriva ad
accarezzargli i piedi. Guarda il logo, e riconosce la sagoma del copricapo che indossa quel signore
di pietra, che lo guarda dall’alto della fontana. E’ una corona… Quel signore era un re!
– Ma di cosa sarà re, quest’uomo che mi guarda con tanta tenerezza?… E’ tutto bianco: i capelli, il
corpo, il manto, quel serpente dritto davanti a lui, attaccato al suo capezzolo… E’ la prima volta, in
tutta la mia vita, che vedo un serpente all’impiedi… In Africa li ho visti soltanto strisciare…
E guardando fisso quella corona, pian piano il bambino si calmò: stava lì, con gli occhi all’insù,
mentre il vento pareva sollevare il manto che scendeva dalle spalle di quel re nudo, inerme, bonario.
Dal corpo gracile, che non incuteva paura. Semmai suscitava un senso di protezione.
Che strana corona…
pensava tra sé e sé il bambino. –
Non ci sono pietre preziose… ha solo delle
punte aguzze, triangolari… ma di quale popolo sarà?
Avvolgeva la piazza un silenzio spettrale, inquieto, inusuale in una piazza che da sempre era stata
l’ombelico del mondo…
Eppure l’aria, anche se afosa, aveva un rincuorante odore di gelsomini e zammù. Il profumo veniva
da un carretto sospinto a fatica da una donna corpulenta, dal vestito ampio, di mille colori: dal rosso
al turchese, sembrava un arcobaleno!
Un turbante arancio e giallo rivestiva il suo capo. Anche lei aveva un volto scuro, solcato da rughe
che le conferivano un’età indefinibile: non era una ragazzina, ma nemmeno una signora agée…
Era una donna dall’aria di mamma, in cui tutto sapeva di latte, di culle di lacci intrecciati sospese tra
gli alberi, in terre lontane. Di nenie sussurrate a mezza voce, che risuonano con la loro dolcezza tra i
ruggiti degli animali selvatici, lasciati liberi di essere se stessi. Le sue forme generose, il suo sorriso
stagliato sul viso, bianco e largo come una collana di mandorle, parlavano di lei come di un rifugio:
il riparo dal caldo, reso ancora più atroce da quella distanza che si protendeva tra gli esseri umani
che correvano, svuotando la piazza.
Erano rimasti solo lei, con quel patetico carretto, traboccante di vasi di gelsomino e di bottiglie di
acqua e zammù, in casse col ghiaccio e quel bambino, che adesso la guardava, in silenzio, con quei
suoi occhi spauriti, tristi. In sottofondo, sembrava di sentire solo il succhio del serpente, che non
aveva smesso nemmeno per un attimo di nutrirsi.
Che ti succede, ragazzino?
disse la donna, allargando la bocca in una risata benevola, con cui
voleva infondere coraggio. Gli si accostava piano piano, senza lasciare i manici del suo buffo carro.
Parlava una lingua strana, un siciliano storpiato da un accento indefinito, un po’ francese, un po’
africano. Eppure il bambino la capiva. La guardava con i suoi occhi sgranati, due laghi neri, dalle
ciglia lunghissime. Intelligenti, penetranti.
– Ho fatto un brutto sogno…
risponde, mentre strofina la mano sul viso ad asciugare le lacrime.
Ho sognato di avere tra le mie braccia un cane bianco, di quelli grandi che c’erano nel mio paese
a sorvegliare le pecore. Scodinzolava, mentre cercavo di stringerlo al petto per coccolarlo.
Scodinzolava e sorrideva, con i suoi occhi grandi e dolci. Mi leccava la faccia… Poi però, mi sono
svegliato all’improvviso… E ho scoperto che ero io, a stringere le braccia intorno al mio petto…
Ero io che abbracciavo me stesso… Mi sono svegliato, ma non c’era nessuno accanto a me… Ero a
terra, lì, in quell’angolo… Gridavo, agitavo le braccia, ma non mi vedeva nessuno… Nessuno si
fermava… Correvano tutti senza darmi ascolto… E’ terribile non essere visti… Mi fa tanta paura…
E riprende a singhiozzare, quasi soffoca angosciato, in mezzo a tutti quei singulti.
Cicala, com’era chiamata la donna dagli abitanti delle piazza, lascia allora i manici del carretto, e si
muove verso di lui sorridendo. Si abbassa per farsi piccola, allarga le sue braccia enormi, e lo
avvicina al suo petto grande, odoroso del latte che sgorga spontaneo dai petali di zagara, in Sicilia:
quel latte dolce, dal retrogusto acidulo, tipico di quella terra aspra e contraddittoria.
Così lo abbraccia. –
Io Ti vedo
, gli dice.
Allora, il bambino sente scorrere, nelle sue vene, lo stesso sangue di quella donna: gli passa
attraverso, in una unione spirituale che unisce anche i corpi, e rinfranca. Perché l’accoglienza salva,
fa sentire vivi, valica le frontiere. La solidarietà è una lingua che comprendono perfino le statue.
Non ci sono confini tra gli uomini sofferenti, si patisce sempre, da una parte e dall’altra.
Solo la capacità di ascolto può dare un significato umano alla vita.