Due città, due mostre, due artisti straordinari: Parigi, Museo d’Orsay, “Le Douanier Rousseau – Jungles à Paris”, Palermo, Palazzo Reale, “Antonio Ligabue. Tormenti e incanti”, 480.000 visitatori la prima, 210.000 visitatori la seconda.

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Rousseau, Surpris

Si è da poco chiusa la mostra “Antonio Ligabue. Tormenti e incanti”, promossa dalla Fondazione Federico II di Palermo e dalla Fondazione Ligabue, curatela di Sandro Parmiggiani. Inaugurata a marzo e prolungatasi fino a settembre, la mostra ha registrato un record d’affluenza di 210.000 visitatori.

Ancora una volta la Federico II ottiene uno splendido consenso popolare, portando in città una mostra di grande rilevanza nazionale, forte della notorietà dell’artista e del lavoro eccezionale che la Fondazione Ligabue continua a svolgere per la diffusione della sua opera. A Parigi, invece, è stata organizzata la mostra di un altro grande artista affine a Ligabue, “Le Douanier Rousseau- Jungle à Paris”, inaugurata anch’essa a marzo. Durata poco meno di  5 mesi, ha portato al museo 480.000 visitatori.

Io ho avuto il privilegio di visitare queste due meravigliose esposizioni, distanziate da un lungo lasso di tempo, quasi a voler prima digerire la pittura del Douanier Rousseau, per poter approcciare l’incredibile universo di Ligabue. Le due mostre, dedicate a due pittori straordinari nella loro singolarità, simili in tante cose, diversissimi in molte altre, risaltano l’unicità del loro fare artistico, grandi testimoni di un mondo stravolto dalla modernità e dai cambiamenti che nella loro pittura rispecchiano paure e speranze di due uomini che hanno sfidato il loro tempo alla ricerca della propria identità artistica.

Antonio Ligabue, Aratura, s.d. (1944-1945), olio su cartone riportato su tela, 33,5 x 47,5 cm, collezione privata.

Antonio Ligabue, Aratura, s.d. (1944-1945), olio su cartone riportato su tela, 33,5 x 47,5 cm, collezione privata.

Due universi paralleli che non si sono mai incontrati, due uomini simili nella loro piatta e tormentata esistenza che fuggono verso mondi immaginari apparentemente esotici, ma in realtà lucide introspezioni dei propri subconsci; due artisti grandiosi, geniali, liberi, unici nella loro rumorosa creatività che non conosce né  regole né padroni.

Due uomini. Un gabelliere e un orfano dalla fragile psiche senza arte ne parte, autodidatti, provinciali, iniziano il loro percorso artistico in età avanzata, animati dalla stessa urgenza creativa, un istinto vitale, arcaico, che dalla mente attraverso il pennello arriva alla tela come bisogno esistenziale, soffio vitale, affermazione atavica di un io creatore che si afferma grazie alla consapevolezza della propria grandezza, all’affermazione del proprio talento, all’urgenza di immortalare quei pochi momenti di verità assoluta che trapelano tra un incubo e un sogno, tra realtà e immaginazione.

Snobbati dai critici e velocemente catalogati, il primo come pittore della domenica come pazzo il secondo, Rousseau il Doganiere e Ligabue il folle riuscirono a conquistarsi il loro posto al sole, grazie alla consapevolezza di essere portatori di una verità nuova. E se i due uomini a volte tentennano, i due artisti non vacillano mai, accaparrandosi, grazie all’ostinata consapevolezza del proprio talento, un posto decisivo nella storia dell’arte occidentale.

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Rousseau, La musica (Moma, New York, 1910)

Parigi, museo d’Orsay. Non si tratta di una mostra monografica canonica giacché, insieme alle opere di Rousseau il Doganiere, vengono esposte opere degli artisti che lo influenzarono e di altri che da lui vennero influenzati, al fine di collocare la figura del pittore in seno alla storia dell’arte occidentale. In particolare, metteva in risalto l’enorme influenza che l’opera del pittore ebbe sulle prime avanguardie e sugli intellettuali di fine Ottocento e inizio Novecento. Fantastico vedere fianco a fianco “Bambina con Bambola” di Henri Rousseau, e “Maya con la Bambola” di Picasso, vedere le forme e i colori di Léger e Kandinsky dialogare con le quelli del Doganiere, e ancora constatare quanto il dipinto “Guerra” abbia ispirato Picasso per il suo “Guernica”.

Henri Rousseau allo stesso modo di Ligabue, in tempi e con un approccio assolutamente diverso, sono spietatamente moderni. Rousseau se ne infischia degli studi sulla luce e sull’atmosfera predicati dagli impressionisti, i suoi paesaggi sono piatti e statici, i suoi colori volutamente sgargianti brillano di luce propria, l’atmosfera non ha nessun effetto su di loro giacché nascono dalla mente di un artista che era già andato oltre e, pur non sconfinando dal figurativo, lo oltrepassa grazie alla vena poetica surreale che abita ogni suo dipinto, apparentemente candidi, in verità profondamente spietati. Della mostra di Henri Rousseau conservo l’emozione di aver rivisto l’ultimo quadro dipinto dal pittore, “il Sogno”; ho rincontrato Yadwigha, fuggita dalle solide mura del MOMA di New York, osservare se stessa, la fauna e la flora che abita i suoi sogni. Comodamente sdraiata sulla sua poltrona Louis Philippe, ammaliata, insieme alle foglie, agli alberi, alle tigri e alle scimmie, dallo splendido suono della cornamusa; il colore si fa musica in un esperienza extracorporea che delizia uomini e donne dal 1910 e che continuerà a farlo per i secoli a venire.

Antonio Ligabue, Self-portrait with a biker cap, undated (1954-55), oil on hardboard, 80 x 70 cm, private collection.

Antonio Ligabue, Self-portrait with a biker cap, undated (1954-55), oil on hardboard, 80 x 70 cm, private collection.

Palermo, Palazzo Reale. “Antonio Ligabue. Tormenti e incanti”, mostra monografica, partendo dall’opera vuole rendere giustizia all’artista, cercando di allontanare i riflettori dalla fragilità psichica e la vita tormentata dell’uomo Toni Laccabue per puntarli sull’artista Antonio Ligabue, affinché l’arte abbagli la vita e la follia si trasformi in un riverbero del suo immenso talento. Quest’uomo venuto dalla Svizzera, approdato in terra ostile, se ne infischia delle avanguardie, dei gruppi artistici che spopolano, dell’astrattismo imperante e del mercato asfissiante, se ne infischia delle guerre, del fascismo, del comunismo, della prospettiva e della composizione. Anche lui, pur restando estremamente figurativo in un secolo che staglia la pittura sulla tela, la brucia, la taglia e mette in scatola le proprie feci, ripropone attraverso una pittura figurativa la sua umanità, il suo mondo, i suoi soggetti pittorici, resi con grande energia espressiva dai suoi colori rutilanti, le sue prospettive audaci e suoi scorci incalzanti. Se la pittura di Henri Rousseau lascia il tempo alla contemplazione, quella di Ligabue è una continua esortazione a tenere gli occhi aperti, a non abbassare la guardia. Cavalli che impennano, fiere che combattono nella spietata lotta per la sopravvivenza, paesaggi che sorridono e animali domestici che pascolano avvolti da un rassicurante paesaggio alpino che ricorda l’infanzia, per poi incappare nuovamente in insetti che ronzano, serpenti che avvolgono, predatori che attanagliano.

Percorso intenso il mio, giunta infine alla sezione dedicata agli autoritratti. Pensando forse di condividere un momento di intimità con l’artista, mi sono sentita piuttosto scrutata, circoscritta, accerchiata. Gli autoritratti sono come le pagine di un’agenda in cui, allo sfondo paesaggistico più o meno luminoso, a seconda della giornata vissuta, si contrappone sempre lo stesso io infranto, con le sue paure e i suoi tormenti, le sue ferite e le sue certezze!

Antonio Ligabue, Testa di tigre, s.d. (1955-56), olio su tavola di faesite, 75 x 64 cm, collezione privata.

Antonio Ligabue, Testa di tigre, s.d. (1955-56), olio su tavola di faesite, 75 x 64 cm, collezione privata.

Della mostra di Ligabue porto con me a casa l’artista! Se l’uomo mi aveva già sedotto e intrigato, leggendo lo splendido ritratto lasciatoci da Zavattini, forse l’unico ritratto che l’artista si fece fare, probabilmente perché omaggio postumo di un amico fedele, inchiostro nero su pagine bianche – ce lo racconta in tutta la sua fragile umanità. Non mi ero mai confrontata con l’opera, non avevo mai osservato di presenza l’energica pennellata e l’umano colore, i miei occhi non si erano mai posati sulle teste di leopardi e leoni ruggenti, che egli amava imitare per  ore e ore cercando di carpirne la forza selvaggia e la nobiltà arcaica, peraltro riuscendoci a pieno.

Un quadro in particolare mi ha sconvolta,  “L’Autoritratto con  mosche”, sarà perche mi ha fatto pensare a “Autoritratto bendato” di Van Gogh, nel quale l’artista mette a nudo allo stesso tempo la sua fragilità in quanto uomo e la sua forza in quanto artista, lasciandoci il ricordo più veritiero di questo genio tormentato da se stesso e dall’ansia di dipingere. Nel quadro di Ligabue, dalla ferita auto inflitta escono, o chissà da essa entrano le mosche, i cattivi pensieri, le paure, le fobie, la morte; il suo volto non le scansa ma pare accoglierle tacitamente e pacificamente in una sorta di patto firmato col sangue. In questo quadro risiede l’inquietudine dell’uomo e la grandezza dell’artista che, impavido, accoglie il suo destino di uomo tormentato e artista geniale, non per scelta ma per elezione.

Quindi chapeau! Ottima curatela per le due mostre così lontane ma così vicine nel tentativo, riuscitissimo, di riportare l’attenzione del grande pubblico su artisti che hanno vissuto per l’arte e di essa si sono nutriti. Percorrendo le sale delle due mostre ero animata dalla consapevolezza di stare entrando in mondi estranei al mio, ai quali mi era concesso accedere lo spazio di un esposizione e dal quale avrei tratto la mia personale impressione sull’opera di due figure eccezionali del panorama artistico del ‘900. Districarmi tra le due giungle non è stato facile, cadere in facili conclusioni nemmeno, certo è che l‘opera di Ligabue è ancora tutta da investigare, e in questo gioco di rimandi, prestiti e lasciti magari tra qualche anno potremmo vedere le sue opere esposte accanto a quelle di Henri Rousseau e di Van Gogh, in una mostra itinerante le cui tappe ideali sarebbero: Parigi/Gualtieri/Palermo!

Barbara Morana