di Ornella Mallo
Il film “L’hotel degli amori smarriti”, di Christophe Honoré, è una riflessione sull’amore tanto lirica
quanto intensa.
Si apre con una citazione tratta dalla poesia “Sotto il ponte Mirabeau” di Guillaime Apollinaire: “Né
più il passato, né più l’amore torna”.
In essa si condensa tutto il film, che appunto scava sulla possibilità, per l’amore, di conservarsi
immutato nel tempo, uguale ai suoi inizi.
Da questo tema centrale, si diramano tanti spunti di riflessione, che si allargano alla vita tutta: il
tema del rimpianto; della possibilità di mantenere, nel presente, tutte le figure incrociate nel nostro
passato, che ancora esercitano una forte influenza su di noi, nella misura in cui hanno contribuito
alla costruzione di ciò che siamo oggi; su ciò che dà un senso alla nostra vita, se cioè l’amore per un
altro essere umano, sia alla fine così centrale, e indispensabile per la realizzazione della nostra
felicità.
”L’Hotel degli amori smarriti” è sicuramente un film intimista. Si svolge in soli tre scenari: la casa
coniugale dei protagonisti, la stanza dell’albergo di fronte, e la casa in cui abita, in età matura,
Irene, uno dei quattro personaggi intorno ai quali si incentra la storia: una casa essenziale, in riva al
mare. Dalla finestra non si vede altro se non la spiaggia, come dalla casa coniugale non si vede che
la finestra dell’albergo di fronte, da cui, a sua volta, non si vede che la finestra della casa coniugale.
Sono cerchi che si chiudono intorno alle anime dei protagonisti, in cui il regista fruga fino ad
arrivare agli abissi più imperscrutati, dando loro corporeità, usando a tal fine anche lo strumento
dell’ironia. Per cui, la volontà di Maria, o per meglio dire, la sua coscienza, viene raffigurata sotto
le spoglie di un uomo bonario e grassoccio, che con lei e con il suo passato, si confronterà, nel corso
di una “notte magica”.
“On a magical night” è il titolo originale del film: è la notte che segue il litigio che nasce all’interno
della coppia di coniugi protagonista. Il contrasto ha origine dalla scoperta casuale operata da
Richard, del tradimento di Marie, sua moglie, professoressa di diritto: la donna ha una relazione
con un giovane studente, Asdrubal.
Marie sdrammatizza la gravità dell’evento con una cinica osservazione: “Gli svaghi extraconiugali
sono la legge delle coppie che durano: nessuna esclusa. Credevo che tra noi ci fosse un accordo
tacito.”
Richard, di rimando, opporrà la sua assoluta fedeltà in venticinque anni di matrimonio.
Di lui, il regista fa emergere la devozione, attraverso il suo comportamento: mentre attende che
Marie si ritiri a casa, prepara la cena; dopodiché, mette avanti la lavatrice. Il che serve per
accentuare il ruolo di ruota trainante che ha Marie, all’interno della coppia.
Sentendosi messa in discussione, la protagonista trascorrerà la notte nella stanza 212 dell’albergo di
fronte la loro casa, e osserverà in silenzio il marito che, devastato dal dolore, non chiuderà occhio
per tutto il tempo, accasciandosi in se stesso. Non è casuale la scelta del 212 come numero della
camera: 212 è il numero dell’articolo del codice napoleonico che elenca i doveri dei coniugi
all’interno del matrimonio.
“I coniugi si devono reciprocamente rispetto, fedeltà, soccorso e assistenza”. Sulla possibilità
concreta di adempiere questi obblighi nell’ambito del rapporto coniugale, riflette il regista,
rinchiudendo la donna all’interno di questa stanza. E’ qui che infatti inizia il percorso introspettivo
di Marie all’interno di se stessa, e quindi all’interno della propria memoria. Noi siamo prima di tutto
ciò che abbiamo vissuto. E dai gorghi del passato, riemergeranno tutte le figure con cui la donna si è
interfacciata. A cominciare da Richard ragazzo, cui il regista dà una corporeità ben definita, facendo
interpretare il personaggio da Vincent Lacoste.
Imbattendosi in lui, Marie rievocherà gli ardori della passione iniziale. E probabilmente saranno
proprio questi, che lei cercherà in tutte le avventure con uomini più giovani, che hanno costellato la
sua vita coniugale, e che anzi l’hanno aiutata a sostenere un tran-tran che altrimenti l’avrebbe resa
piatta, come piatto ai suoi occhi è il marito, interpretato da Benjamin Biolay, terribilmente ancorato
al passato.
Questo sguardo all’indietro, gli impedisce di vedere come il loro rapporto si sia evoluto, o meglio
involuto, nel tempo. Da qui, lo stupore per la scoperta dell’infedeltà della compagna.
E, sempre in questo spietato viaggio introspettivo, prende corpo un altro fantasma del passato:
Irene, il primo amore di Richard. E’ l’insegnante di pianoforte di cui Richard era innamorato, prima
di conoscere Marie. Irene è un personaggio intenso, doloroso: incarna l’amore respinto. Con esso, il
rimpianto per il non vissuto: rievocando il suo fantasma, Marie si chiede come sarebbe stata la vita
di Richard, se avesse sposato Irene. Probabilmente, con lei, Richard avrebbe coronato il sogno di
avere un figlio, cui ha dovuto rinunciare per via dell’egoismo della moglie, troppo centrata su se
stessa per volerne. Il regista, per esplicitare il suo pensiero si serve di simboli: ecco allora un
bambino piccolo che appare nella casa coniugale, accanto al fantasma di Irene. Bambino che si
trasforma in una bambola, a rappresentare il sogno che resta tale.
Forse anche la vita di Irene avrebbe preso un’altra piega, anziché quella solitaria che di fatto ha
avuto nella vita reale: nel presente lei vive in una casa in riva al mare, lontana da tutto e da tutti.
Lontana anche dall’amore per un uomo: non è detto che per forza questo debba dare un senso alla
nostra vita.
Ai quattro protagonisti principali, si affianca, come dicevo, anche la volontà, o meglio la coscienza
di Marie, che la aiuterà in questa atroce perlustrazione di se stessa, alleggerendola con ironia; e si
affiancano figure eteree, di cui viene sottolineata l’inconsistenza: i suoi innumerevoli amanti.
Sono tutti uomini che lei fagociterà, senza dare loro alcun peso o valore. Uno svago, nei momenti di
noia.
Neppure pare avere un peso rilevante il marito, che la cerca l’indomani mattina, invitandola a fare
colazione insieme: freddamente lei lo saluta dicendo che è tardi, che deve correre al lavoro.
Il film si chiude con il fermo immagine di lei che pare riprendere la sua attività di mangiatrice di
uomini, guardando altrove.
Qual è, allora, la conclusione cui pare arrivare il regista?
“L’amore presente è contraddittorio, perché si costruisce in un angolo della memoria. E’ dal passato
che facciamo risorgere la certezza dell’amore”.
Cioè: la durevolezza delle storie d’amore, ci viene quasi imposta da un passato cui teniamo fede, ma
che in realtà non rispecchia il nostro presente, perché nel frattempo cambiamo. La magia di quello
che è stato non ritorna, nemmeno nella più fantastica delle favole. “L’amore è libero, non è
sottomesso al destino”, scriveva il più volte citato Apollinaire.
Quindi occorre andare avanti con consapevolezza, per non sprofondare nell’abisso del non detto, e
per non vivere come fantasmi di un tempo perduto.
A questo intenso lavoro sulla psiche e sulla storia dei protagonisti, fa da sfondo una musica
meravigliosa, che trascina in una dimensione metafisica, irreale. Domina Scarlatti, con la sonata in
la maggiore K208, che invade le strade di Parigi.
Mentre, tra tutti gli attori, sicuramente la figura dominante è quella di Marie, interpretata da una più
che mai intensa Chiara Mastroianni, il cui sguardo e la cui naturalezza, ricordano tanto il padre.
Con questo film, ha vinto il premio come migliore attrice nella sezione “Un certain regard” al
Festival di Cannes.
Premio meritatissimo, perché grazie a lei, il film riesce in questo intento psicoanalitico
difficilissimo, servendosi di registri diversissimi, come il drammatico e l’ironico, che coabitano in
perfetto equilibrio.
Da vedere.
(fonte immagine: web)