Il libro sarà presentato domenica 24 aprile alle ore 12 in piazza Bologni (Isola Sciascia) in occasione della Via dei Librai
Recensione di Salvatore Ciulla
A metà tra il saggio filosofico, caratterizzato da una struttura a scatole cinesi, e il romanzo, o meglio l’insieme di storie, sovente autobiografiche, Marcello Scaduto analizza le cose come cristallizzazione di emozioni, sensazioni, ricordi, compiendo al tempo stesso un’autoanalisi in grado di mettere a nudo il mondo interiore dell’Autore, nella sua individualità e nelle sue relazioni con l’altro, disvelando una sensibilità affinata dalla sua esperienza professionale di medico.
Pur trattandosi di un’opera prima, Il tempio delle cose, si presenta quale lavoro di grande interesse, non solo per la ricchezza sul piano contenutistico, ma anche quale esperimento innovativo sul piano squisitamente letterario, tale che alla molteplicità delle suggestioni intellettuali fa da contrappunto la varietà dei registri linguistici e narrativi.
L’Opera presenta una struttura caleidoscopica dove, attraverso l’analisi di temi diversi e apparentemente distanti, l’Autore restituisce una riflessione sull’esistenza e sull’esperienza umana in una prospettiva unitaria e al contempo interdisciplinare, ove convergono citazioni letterarie, musicali e cinematografiche.
La riflessione filosofica dell’Autore prende lo spunto da un’esperienza comune a tutti noi e apparentemente banale: le cose che riempiono il nostro ambiente circostante, che definiscono le identità di ciascuno, perché in esse si cristallizzano i nostri ricordi, le nostre emozioni, i nostri sentimenti. Le cose, diverse dai meri oggetti, che attraverso la memoria, come nelle pagine della Ricerca di Proust, ci mettono in relazione col nostro passato. Le cose, che definiscono la nostra identità e che ci fanno cogliere l’unicità di ogni storia individuale, istaurando un legame profondo tra esse e le persone che “le vivono e le posseggono”.
Tale legame, analizzato lucidamente da Pierpaolo Pasolini negli Scritti Corsari, rimanda a quella sacralità di ogni vita che si riverbera su quelle stesse cose, descritte con sguardo antropologico dall’Autore come elementi di un templum, un recinto, uno spazio sacro, dove spazio e tempo si sospendono e dove il Kosmos si oppone al Chaos e all’entropia del divenire, avvicinandoci alla dimensione dell’Essere.
Accanto al tema principale, l’Opera è ricca di suggestioni filosofiche e letterarie, ma anche di immagini altamente simboliche. La strada, quale metafora della vita come viaggio suddiviso in tappe, e le stazioni, quali luoghi di incontri e coincidenze, i quali disvelano attraverso gli intrecci tra vite e cammini diversi (quasi un effetto Butterfly), il senso segreto dell’esistenza, si incardinano così in una cornice filosofica contraddistinta dalla circolarità del tempo e dal costante rispecchiamento tra livello universale e individuale, tra micro e macro e ancora dall’esistenza recondita di una verità eterna destinata a pochi.
Ogni viaggio si staglia così sull’orizzonte di un universo circolare e in continuo divenire che attraverso il ciclo dell’esistenza, dalla nascita alla morte, come nell’Anabasi Di Senofonte o nel viaggio di Odisseo, termina ineluttabilmente in coincidenza col punto di partenza.
E ancora, il potere della mente e del pensiero, sconosciuto e sconfinato, che “quasi crea la materia”, come la musica del Flauto magico, al cui uso strumentale e demagogico da parte delle classi dominanti, si contrappongono le infinite potenzialità legate a un uso virtuoso di coloro che vogliano intraprendere un percorso volto alla scoperta dell’autentica conoscenza.
Nell’incontro tra la realtà e la dimensione onirica che accompagna il racconto del percorso iniziatico di un bambino di nove anni, l’Autore ritrova, infine, un senso di pace e di liberazione e insieme la capacità di restituire alla realtà il senso di magico e di meraviglia per una vita non appiattita sulla quotidianità, ma in grado di rendere il senso unico dell’esistenza.
Come nella canzone L’ultimo spettacolo di Roberto Vecchioni, l’Opera appare dicotomicamente scissa tra sogno e realtà, tra passato e futuro, tra l’occhio blu, simbolicamente legato alla rimembranza, e l’occhio azzurro, quale sguardo rivolto verso l’avvenire, ricomponendoli però in una visione unitaria che lascia intravedere, senza definirlo, il senso autentico dell’esistenza.
Attraverso l’analisi del mito, quale narrazione in grado di dare forma al caos, l’Autore compie un passo successivo: con il coraggio che gli deriva da un lavoro di introspezione interiore, volto a recuperare un sé autentico attraverso la meraviglia dello sguardo infantile in grado di cogliere la magia delle cose, Scaduto guarda in faccia la realtà nella sua crudezza e in maniera quasi profetica affronta il tema dell’orrore della guerra. Qui si innesta il racconto dedicato alla nonna, Antonina Scaduto, caratterizzato da un cambio di registro narrativo che diviene ora prepotentemente realista. Attraverso la storia vera, incentrata sull’esperienza della perdita subita da Antonina, legata in particolare alle vicende del figlio, Achille Scaduto, colpito da una folata di vento mentre si lanciava col paracadute nei cieli dell’Africa Settentrionale, l’Autore compie una lucida analisi dell’avventura bellica dell’Italia fascista durante la seconda Guerra Mondiale, proponendo una demistificazione dell’ideologia degli “italiani brava gente”.
Nell’ultima parte dell’opera trova spazio una riflessione sull’uso sacro delle droghe nelle civiltà antiche, quali strumenti di comunione con Dio e con la natura, nonché quali facilitatori del processo di creazione artistica. L’Autore distingue, tuttavia, l’uso consapevole, il quale richiede la capacità di controllare la parte nascosta del potere della mente, dall’abuso, dettato dal bisogno di superare il male di vivere, le cui radici affondano nell’episodio biblico della cacciata dal paradiso terrestre. Tale dolore esistenziale porta l’uomo a retrocedere alla condizione animale, a causa dell’imperversare del desiderio di possesso dei beni materiali che, regalandoci l’illusione del potere, ci allontana dalla divinità naturalmente presente nell’essere umano.