Recensione di Ornella Mallo 11/11/2023

Essere e non essere della parola tra silenzio e poesia, Poema collettivo di canzoni libere leopardiane, Edizioni Progetto Cultura 2023. EDIZIONE DEFINITIVA

La Poetanza è una rete di poeti coordinata da Fabio Sebastiani, Maurizio Mazzurco e Luciana Raggi. Nasce nel 2020, anno del lockdown. “Poetanza” è un neologismo ispirato dai termini comunanza, sorellanza, fratellanza, termini che esprimono valori il cui richiamo assume delle connotazioni di carattere civile: i poeti si riuniscono in una comunità solidale, che supporta, sostiene e crea opere letterarie corali, in cui ciascuno dà il suo contributo mettendo al servizio di tutti il proprio talento, senza rinchiudersi in recinti egotici e narcisistici. Questa collaborazione ha dato vita a una trilogia poetica composta dalle opere “Gabbia-no”, “Amicizia virale” e “La nave di Amleto”, tutte pubblicate dalle Edizioni Progetto Cultura. La caratteristica comune a questi tre poemi, a parte il loro essere collettivi, ossia creati grazie all’apporto di tanti poeti, è l’utilizzo di schemi metrici classici, all’interno dei quali far veicolare contenuti attinti dall’epoca contemporanea. La gabbia metrica, cui fa riferimento esplicito il titolo della prima opera, non è allora un limite opposto alla creatività del poeta, ma al contrario offre l’opportunità di conferire ai testi una veste la cui musicalità è garantita dalla ritmica della tradizione letteraria italiana.

E così, “Gabbia-no”, edito nel 2020, è stato scritto da 33 poeti in terzina dantesca, prendendo spunto dal 700esimo anniversario della morte di Dante; “Amicizia virale”, edito nel 2021, è nato dall’apporto di 66 poeti che hanno scritto in ottava ariostesca; “La nave di Amleto”, edito nel 2023, scaturisce dalla collaborazione di 82 poeti, che hanno utilizzato lo strumento metrico della canzone libera leopardiana.

I temi affrontati nei tre poemi sono diversi, ma tutti ancorati alle necessità del momento storico in cui sono stati composti. “Gabbia-no” vuole essere un invito a uscire dall’isolamento in cui si era costretti a vivere durante il lockdown grazie alla comunicazione on-line creativa, e nello stesso tempo un richiamo all’abbandono di contenuti mielosi e sentimentali – di cui gabbiani e derivati sono l’immagine-, che soffocano la poesia: quindi, meno retorica, più aderenza alla realtà nell’ispirazione, nell’ottica di una vera e propria rinascita della poesia civile.

“Amicizia virale” tratta il tema dell’amicizia in un momento storico che slatentizza i muri autistici di diffidenza che gli esseri umani tendono a erigere per chiudersi in sé stessi, escludendo l’Altro, potenziale untore, se facciamo riferimento all’alibi del Covid, ma in realtà elemento di disturbo in un equilibrio fondato sul culto di sé. Ecco quindi che della poesia si fa un uso politico nel senso nobile del termine, non politicizzato, ma volto alla cura della polis, del ​demos. La collaborazione tra poeti, il cui apporto è egualitario, si fa metafora della rete di relazioni che, quando viene allacciata dagli esseri umani, porta creatività, bellezza e benessere: “Tanto FIL produrrebbe l’amicizia, / abbasso il PIL meschino, ch’è mestizia!”, recitano gli ultimi versi dell’ottava n.22, dove FIL sta per Felicità Interna Lorda.

“La nave di Amleto” affronta invece il tema del silenzio. Il riferimento al dramma di Shakespeare nasce proprio dalle ultime parole pronunciate dal protagonista Amleto prima di morire: “Il resto è silenzio”, sottendendo l’esistenza di due realtà che si svolgono su due piani distinti: una è la realtà visibile, quella dei fatti; l’altra è la realtà nascosta, interiore, intima, afferente ai segreti convincimenti che qualche volta si traducono in azione, mentre altre volte restano dubbi così paralizzanti da determinare inazione, ma che comunque costituiscono il senso profondo del dramma. Questa realtà invisibile, il resto di cui parla Amleto, non sempre viene alla luce, anzi si disperde del tutto al momento della morte, che vi stende sopra il suo velo di silenzio.

Non solo. Il sottotitolo dell’opera dice: “Essere e non essere della parola tra silenzio e poesia”. La parola oscilla tra il sottaciuto e l’espresso, e in questa oscillazione si può fare così pura da diventare poesia. Il richiamo a spinte civili è evidente. Oggi siamo inondati da parole superficiali, sovrabbondanti, spesso aggressive, che distolgono l’uomo dalla sua essenza e lo allontanano dal suo vero sé. L’uso di una parola che sgorghi dall’ascolto della nostra voce interiore, possibile soltanto grazie al silenzio, sicuramente contribuirebbe alla formazione di una umanità migliore, non più superficiale, ma che scava dentro di sé allo scopo di creare relazioni che si innestino nel profondo. “Al nero sole del silenzio le parole si doravano”, scriveva Alejandra Pizarnik. E Ungaretti: “Quando trovo / in questo mio silenzio / una parola / scavata è nella mia vita / come un abisso.”

L’uso della metrica leopardiana, invece, è un chiaro omaggio a uno dei poeti italiani che meglio di tutti gli altri ha saputo cantare il silenzio, e cioè a Giacomo Leopardi. Ricordiamo i “sovrumani silenzi” di cui parla nella poesia “L’infinito”: “E come il vento / odo stormir tra queste piante, io quello / infinito silenzio a questa voce / vo comparando”. Il poema si apre con un controcanto all’”Infinito”: “Mi dicono che per dir del silenzio / occorre scriver canti leopardiani / ebbene, io sono qui, Giacomo caro / e vedo come tutti / farneticando versi / laudi rimando e sillabe contando / dimenticano che sia cosa importante / parlare col silenzio che abbiam dentro!”

La metrica si ispira agli ultimi esiti di Leopardi, ed è flessuosa, non ingabbiata nello schema della canzone di modello petrarchesco: è composta da settenari ed endecasillabi sciolti, non piegati all’obbligo della rima. Il risultato è una metrica duttile, che si presta all’utilizzo anche di lingue straniere, pensiamo allo spagnolo, o anche del vernacolo, come il siciliano, il romanesco, per fare qualche esempio, rispecchiando così i tempi di oggi, caratterizzati dal plurilinguismo, per via del fenomeno dell’immigrazione e della globalizzazione, e in cui, allo stesso tempo, si incentiva la riscoperta delle tradizioni dialettali locali.

Da un punto di vista contenutistico, il silenzio viene attraversato in tutte le sue sfaccettature. È interessante notare come, essendo il termine privo di sinonimi nella sua connotazione di assenza di suono, viene impiegato all’interno del poema ben 373 volte, ma sempre con un significato diverso, perché viene esplorato in tutte le sue valenze sia in positivo che in negativo. In alcuni versi viene visto come un’entità concreta, che fa a meno delle parole, oggetto di percezione olfattiva: “L’odore del silenzio non cerca le parole”. In altri, invece, balugina una vera e propria miriade di silenzi da custodire intatti per poi ripescarli nel frastuono assordante: “Raduno i miei silenzi / alle porte dell’alba / e nella stasi della luce cerco / un ripostiglio che li serbi intatti. / Andrò a trovarli quando troppo intenso / diventerà il rumore / oblio della coscienza.” È “alito di brezza / sulle guance solari dei limoni”, “seta sulla pelle”, “candore che avvolge”; musica: “il tacere composto / di pause vive è nota / d’oro e di vento insieme”; un vuoto da riempire: “Sii per me un silenzio da riempire”; una cura per l’uomo che si ricongiunge con la sua autenticità, senza condizionamenti: “Senza chiasso mentale, in un ascolto attento / di sé stesso e del mondo / scioglieva compromessi / e trite convenzioni. […] Ritrovava la pace. / Ritrovava la cura nel silenzio”. È strumento di conoscenza, che permette di “bere / l’infinito orizzonte di nuovi mondi”. È ricordo d’infanzia il silenzio che si ascolta da bambini vicino ai cimiteri, come pure quello imposto dai maestri a scuola.

Ma c’è anche “il silenzio dei morti”: “Ora tuonano voci / che più non riconosco, sono voci / di guerra e quel silenzio / è quello di città che verso il cielo / alzano solo i resti del saccheggio.” È contemplato anche il silenzio divisivo dei mutismi e delle parole che non dicono niente: “Ormai sono finite le parole, / sono già state tutte deflorate. / Anche il silenzio atavico / abbiamo prostituito; / […] questo silenzio picchia / assordante martello. / Non ci parliamo più. E per la salute / meglio scambiarci, poi ne riparliamo, / senza rancore un sano: ‘E vaffanculo!’”

Contrasta con il silenzio – “bestia” quello degli amanti, le cui anime si mescolano in un processo di osmosi: “Ti rivedrò un giorno amore mio, / attendo te, piangendo nel silenzio, / ti giungo piano nei nostri respiri.”

E la poesia? Dove si colloca la poesia nel rapporto tra silenzio e parola?

“C’è il silenzio tra due note, ma c’è anche il silenzio di entrambe le note”, scriveva Krishnamurti. È una citazione cara a Milo De Angelis, il quale se ne serve proprio per spiegare come la poesia nasca dal silenzio. C’è il silenzio che s’interpone tra due parole, di cui una è pronunciata e l’altra si attende, e il silenzio che avvolge entrambe: è il silenzio mistico, assoluto, “senza centro né principio”, per dirla con Battiato, che si dilata all’infinito rendendo visibile l’invisibile. Da questo silenzio affiora “quello che gli ermetici chiamano la plèroma, o pienezza dell’essere”, come osserva H. Bloom. Compito del poeta è tradurla in una parola che, scaturendo da un silenzio-grembo, acquista un crisma di religiosità: “Ogni parola è sacra / solo se partorita dal silenzio / e se prendi l’ascolto, / saprai lo sguardo giusto.” È qui che nasce la poesia: “Oltre il frastuono lì dove c’è il punto / tra l’anima del mondo e il mio ascoltare / la poesia rivive.” E il poeta nei suoi versi dà corpo all’animo umano. Da qui la domanda che leggiamo nel poema: “Delle scie farfalle mappare il volo, / tarpare le sue falle / al paradigma ‘uomo’: / a ciò siamo chiamati noi poeti?”

L’opera, per quanto collettiva, presenta una sua omogeneità, grazie alla cura che hanno impiegato Fabio Sebastiani, Luciana Raggi e Maurizio Mazzurco nell’assemblare le strofe. Ed è da leggere in un’epoca come la nostra, così invasa dai rumori da essere disabituata al silenzio, per come osserva William Burroughs che, ne “Il biglietto che esplose” scrive: “L’uomo moderno ha perduto la facoltà del silenzio. Provate a fermare il vostro discorrere sub- vocale. Provate a raggiungere anche solo dieci secondi di silenzio interiore. Incontrerete un organismo antagonista che vi costringe a parlare.”