di Ornella Mallo                                                                                                          12/03/2020
Dunque, non elucubrazione astratta, svincolata dalla realtà. Ma un coltello che affonda nella vita
quotidiana, la scava nei più profondi meandri, portando alla luce tutto ciò che non è umano, per
evitare che tutto ciò che attenta all’umanità in quanto tale, si incisti, diventando una piaga da cui
sgorga materiale purulento.
Quindi la poesia deve avere un suo valore morale, non moralistico. Deve cioè inneggiare a tutti i
comportamenti degni dell’uomo, nel senso più nobile del termine.
Deve essere un inno alla non prevaricazione, alla eguaglianza: all’empatia, passando per le vie della
com-passione, ossia del patire insieme.
Nessuno più di Nazim Hikmet sa che la poesia è impegno. Impegno politico, assunto e pagato sulla
propria pelle: Hikmet lotta contro l’occupazione della Turchia da parte di un regime anticomunista.
Viene rinchiuso in carcere, e poi costretto all’esilio in Russia. E innumerevoli sono le poesie
patriottiche, scritte in onore del suo popolo.
Ma soprattutto, la poesia di Hikmet è una poesia “umana”, nel senso più pieno del termine.
Egli non ha una visione religiosa della vita, essendo ateo. Tuttavia, le sue poesie sono pregne di
spiritualità, perché di spiritualità è fatto l’uomo, non solo di materia.
La sua, è una visione della vita ottimista: egli crede fermamente nella buona fede dell’uomo. E
crede nella bellezza della vita: una bellezza che sembra venire meno, ma che invece si riafferma con
più rigoglio, come scrive nei suoi versi.
Citiamo, dalla poesia “Rubai”:
“Non mi fermo a rimpiangere i giorni passati
– salvo una certa notte d’estate –
e anche l’ultima luce dei miei occhi azzurri
ti annuncerà lieti giorni futuri.
Un giorno, madre natura dirà: Mia creatura
hai già riso, hai già pianto abbastanza.
E di nuovo, immensa,
sconfinata, ricomincerà
la vita, senza occhi, senza parola, senza
pensiero…”
Oppure:
“Finito, dirà un giorno madre Natura
finito di ridere e piangere
e sarà ancora la vita immensa
che non vede non parla non pensa”.
Dal carcere in cui è stato rinchiuso, Hikmet scrive splendide poesie d’amore alla moglie del tempo,
Muneerev.
Un uomo amante della vita, come Hikmet, non può non ritenere l’amore una componente
fondamentale della vita stessa: ciò che la abbellisce e la colora, dando ad essa un significato.
Nazim Hikmet si sposò quattro volte, ed ebbe un’infinità di donne. Ma sicuramente, Muneerev, in
quanto madre del suo figlio amatissimo Mehmet, fu una donna importantissima nella sua vita, di cui
riconobbe sempre la bellezza, non solo esteriore, contrassegnata dai suoi fiammanti occhi verdi, ma
anche interiore: il suo acume e la sua intelligenza.
Tra le poesie d’amore, tutte bellissime, quella che prediligo è “In questa notte d’autunno”, scritta
nel 1948 dal carcere in cui è stato rinchiuso, negli anni tra il 1938 e il 1950.
Amo questa poesia particolarmente, perché trovo che essa metta in risalto un elemento
importantissimo, in amore, come in ogni relazione umana. Ed è il dialogo, il valore delle parole che
si scambiano un uomo e una donna che si amano, nel senso autentico del termine. Un amore che si
radichi dentro, non l’amore liquido di oggi, che scorre sulle superfici come niente, di cui parla
Bauman nei suoi trattati.
In un rapporto d’amore che germini dentro, la donna agli occhi dell’uomo è “madre, amore, amica”.
E’ sì “carne”, ma anche “cuore, testa”. E’ una donna profonda, che riempie di sé, dei suoi contenuti,
ogni parola: scrive Hikmet “sono pieno delle tue parole cariche di te”.
E le parole pronunciate da Muneerev, cui la poesia è dedicata, sono parole cariche dell’umanità
tutta. Dunque, sono parole “eterne”: “come il tempo, come la materia, pesanti come la mano,
scintillanti come le stelle”.
Sono cioè parole non avulse dalla realtà che ci circonda, ma al contrario ne sono pregne. Ne
abbracciano l’essenza, la bellezza: il cosmo tutto, fino ad arrivare alle stelle.
In quanto piene, sono cariche di stati d’animo: sono tristi, amare; ma anche allegre, piene di
speranza. Coraggiose, eroiche.
Conclude Hikmet: “Le tue parole erano UOMINI”.
Ecco: le parole che compongono il nostro linguaggio, non devono essere vuote, prive di significato.
Buttate lì, tanto per mettere a tacere un silenzio che parla. Devono essere ponderate, cariche di
contenuto: riflettere l’essenza stessa delle cose. Ma soprattutto devono essere ASCOLTATE.
In un mondo in cui nessuno ascolta più nessuno, in cui non si sa varcare il cerchio del proprio ego,
torniamo ad una dimensione umana della vita e del dialogo.
Assaporiamo, dunque, in silenzio, questa splendida poesia:
“In questa notte d’autunno
sono pieno delle tue parole
parole eterne come il tempo
come la materia
parole pesanti come la mano
scintillanti come le stelle.
Dalla tua testa dalla tua carne
dal tuo cuore
mi sono giunte le tue parole
le tue parole cariche di te
le tue parole, madre
le tue parole, amore
le tue parole, amica.
Erano tristi, amare
erano allegre, piene di speranza
erano coraggiose, eroiche
le tue parole
erano uomini.
(fonte immagine:web)