di Ornella Mallo 01/04/2022

Scriveva Franco Loi: “Siamo poca roba, Dio, siamo quasi niente,/forse memoria siamo,/un soffio d’aria,/ ombra degli uomini che passano, i nostri/parenti,/forse il ricordo d’una qualche vita perduta,/un tuono che da lontano ci richiama/la forma che sarà di altra progenie…/Ma come facciamo pietà, quanto dolore,/e quanta vita se la porta il vento!/Andiamo senza sapere, cantando gli inni,/e a noi di ciò che eravamo non è rimasto/niente.” E Montale, nella poesia “Tra chiaro e oscuro”: “ ma quello che ci resta sotto le unghie/anche se usciamo appena dalla manicure,/quello è ancora la prova che siamo polvere/e torneremo polvere e tutto questo/è polvere di vita, il meglio e il tutto.” Del nostro passaggio su questa terra non resta niente. E’ questa una solida certezza, un niente che diventa tutto, un polo di verità, allora, che si contrappone alla menzogna, che è l’ altro polo entro cui ci dibattiamo nella nostra vita. “Niente è più vero del niente” , scrive Beckett nell’esergo scelto da Romano; e “La menzogna non è nei discorsi, è nelle cose”, afferma Calvino nel secondo esergo: cose mendaci in quanto transitorie. E nulla di nulla resta, né delle cose né delle persone. Nella poesia “Malattie”, che contiene il verso che dà il titolo alla silloge, il Poeta scrive: “ Ci sono malattie/pure in salute piena/tanti morbi annidati/in sillabe bacate/che cascano dai denti/e gesti cancrenati/mulinanti nell’aria/non certo indispensabili/anzi dannosi e spuri/Movenze che dibattono/ tra un niente/e una menzogna”. La silloge, dunque, intende essere un’analisi lucida e razionale della vita , compiuta dall’alto degli anni della maturità dell’Autore, anni in cui è possibile tirare le somme del proprio vissuto, “comprendendone resti e dividendi”. E’ un’analisi impietosa, al netto dalle illusioni in cui è facile incespicare in età giovanile, quando il tempo a disposizione sembra infinito, e si ha la sensazione di essere gli unici artefici del proprio destino. In “ Il tempo mio” scrive: “Beata la stagione/ in cui il tempo è per te/landa infinita/e puoi anche sgualcirlo/con indugi rimandi e tentativi/flaccidi come corpi di meduse/e sai che puoi dar spazio all’incoscienza/al pressappoco e al canto di sirene/pronte agli eventuali aggiustamenti/pensati con la regola del “dopo”/se il tempo mio d’adesso/è più prezioso/d’una cometa vista ogni tant’anni/ed ogni gesto deve amare un senso/compiuto lesto ed inequivocabile/senza sciupio di pane o di parole :/con dignità/e con l’unico rossore/della lucetta sulla spia dell’olio”. Alla luce di questa analisi, il poeta definisce se stesso come “il setaccio di tutto ciò che ha perso”. E, come “folate che spalancano finestre mal richiuse”, “arrivano correnti di memoria” , che fanno emergere rimorsi, rimpianti, parole non dette, commiati che si sono rivelati addii. I ricordi naturalmente hanno un ruolo preponderante nell’indagine sul senso della vita: aiutano a carpire il vero significato degli eventi. Scriveva Caproni: “Conclusione/quasi al limite della salita/ – Signore, deve tornare a valle./Lei cerca davanti a sé/ciò che ha lasciato alle spalle./ ” In “Trafitture” Romano scrive : ”Vagoni di memorie/sfrigolando arrivano/da quel lontano Dove:/le senti risalire come un rutto/che assomma a bordo gola/o come carri d’acciaio/che mordono binari/a cremagliera/Impresa ardua/tenerne a bada gli echi/scansarne trafitture/o mediarne gli effetti/che rapidi si muovono/tra un evviva e un pianto” . Emerge una visione che non indulge verso smielati sentimentalismi: “Per noi/invisibili anche ai pleniluni/la sfida è a pugni chiusi con la vita/ma accorrere sapremmo/ai suoi richiami/con l’augusta speranza/che non le sia scappata/una chiamata”. L a nostra vita, quindi, procede duramente sopra binari di un treno, attraversa un percorso coatto; e gli eventi , ora felici, ora dolorosi, ci fanno oscillare tra stati di euforia e stati di “disforia” , per poi , con la morte, sprofondare nell’oblio. Scrive: “Usciremo comunque/ dalla corsia di marcia/[…]Ritroveranno poi/un battito di ciglia/nell’androne”. E in “Polittico ai frusti giorni”: “Lasciamo questo pianto/ai salici di fiume/se la vita/è un metronomo che mima/alternanze di azzurrità e grigiori”. Il Nostro ricorda molto l’ultimo Montale , quello de “ I quaderni del ’72 ” , che nella già citata poesia “Tra chiaro e oscuro” scriveva: “tra chiaro e oscuro c’è un velo sottile./Tra buio e notte il velo si assottiglia./Tra notte e nulla il velo è quasi impalpabile./ La nostra mente fa corporeo anche il nulla.” In questo percorso, difficile è segnare una linea di demarcazione nella valutazione delle cose : il “panta rei”, l’essere in continuo movimento, trasportati da un treno ad alta velocità, determina una grande confusione, e se è vera un’affermazione, è altrettanto vera quella contraria . Afferma va Niels Bohr: “Ci sono due tipi di verità: le verità semplici, dove gli opposti sono chiaramente assurdi, e le verità profonde, riconoscibili dal fatto che l’opposto è a sua volta una profonda verità.” Scrive Romano nella poesia “Erba amara” : “Nessun fatto è lineare/come le righe dritte dei quaderni/scopri che il tondo è ovale/e le tonalità davvero stinte/lungo il cammino/asprigno ed intrapreso/senza indottrinamenti sul domani/E intanto si vorrebbe/di colpo sradicare l’ erba amara/ rimuovere ferite alla coscienza/ma risponde soltanto un vento che congiunge le persiane/e l’occhio che conduce ad una stella. ” Dunque, se pure sfocia nel niente, la vita è comunque una forza inarrestabile, e di questo il Poeta prende atto: in “Senza rumore” scrive “Impercettibilmente/avanza un divenire / è il creato che cresce/senza fare rumore:/germina un seme/e rompe la sua scocca/un bimbo sugge vita/avvolto dal suo grembo/[…]e non sei solo.” Lo sguardo dell’autore è anche attento alla società e al tempo storico in cui vive. In “Come cardo che cresce” afferma: “Fra enormi insicurezze/e titubanze/mostrasi finalmente/una certezza/che nessuno potrà/mai confutare:/io morirò nel secolo ventuno/ma sono stato in groppa/alle torri gemelle e al novecento/come l’arcobaleno fra due sponde/”; e in “Stridore”: “Scriviamo di lampare/e nottiluche/come leggiadre immagini/dell’intimo sentire/mentre qualcuno scalzo d’ogni sorte/vagola nei suoi sogni devastati”. Il messaggio è chiaro: la poesia non deve avere contenuti discrepanti dalla realtà, ma al contrario deve essere il bisturi che scende a fondo portando alla luce tutti i mali che affliggono il nostro vivere, senza temere di far salire a galla non solo le diseguaglianze sociali, ma anche il marcio e il nauseabondo. Scrive il Nostro: “Per scrivere poesie/bisogna frequentare il vuoto/la durezza dei muri/il farfugliare assurdo/delle chiromanti/e la danza spettrale delle foglie/quando di sguincio batte il maestrale/[…]rovistare l’alba disarmata/che s’apre ai pericoli del tempo/Serviranno quei versi/nauseanti come peli sul lavabo/o finiti per caso/ nell’umido sparpaglio dei rifiuti/e ad ogni modo/per scrivere poesie/bisogna genuflettere l’anima/ascoltando un album di Endrigo/e lavarsi i capelli/con la residua cenere del mondo/ ”. Romano lamenta il non ascolto, da parte della società di oggi, delle voci dei poeti. Scrive che “la poesia resta come becco senza nido/se poi la gente/fugge le sue rime/e le fa compagnia soltanto un cane ”. Il poeta dà anche voce al sentire più intimo, quello del cuore, come in “Flutti di mare”: “Come sassi di greto/apparvero i tuoi occhi/che a sera mi parlarono/col linguaggio del faro”; oppure in “Luci di costiera”: “il vespro/mi spingeva a sorseggiare/nelle mani a conca il tuo respiro”. Bellissimi i ritratti di donna dipinti dal poeta nell’ultima parte della silloge, intitolata “Trilogia d’un tormento”: sono tre poesie dedicate a tre donne che si sono distinte nella storia per l’amore verso la libertà, e che perciò non si sono piegate alle convenzioni sociali dei loro tempi, ossia Camille Claudel, Ipazia e Artemisia Gentileschi. Nella poesia “Camille Claudel” scrive: “ma femmina rimani/donna e amante/ora che tardi arriva il tuo dolore/per quella libertà mai rassegnata/fino all’ultima lacrima d’argilla”. Lo stile è elegante e ricercato. Nelle interviste, l’autore cita come poeti di riferimento Alfonso Gatto e Bartolo Cattafi. Ricorda anche non solo Loi e Montale, che ho già citato, ma anche Caproni e Luzi, soprattutto per la profondità, e il modo forbito di porsi, oltre che per l’ironia fortemente palpabile nei suoi versi. Emerge un’estrema cura della parola, attesa e ricercata in quanto rivelatrice di senso, e il poeta scrive: ”…e penso/che sia giusto confessare/che a mancarmi/è sempre una parola/alta e mordace/ruffiana del mio senso/[…]Proprio quella parola che sia insieme risucchio e gorgoglio/come lavello colmo che si svuota/[…]Non conosce mai tempo/l’attesa al varco dell’unica parola/che sia rivelazione all’incoscienza/miele d’accenti alle giornate amare/. ” Con questa splendida silloge, Nicola Romano si conferma ancora come uno tra i più grandi poeti italiani contemporanei.

Ph: Mario Virga