Recensione di Ornella Mallo 02/10/2021

E’ difficile esprimere un’opinione sul film “Tre Piani”, se si tiene conto delle stroncature che gli sono state inferte da certa critica, in primis dalla giuria del Festival di Cannes, cui ha partecipato quest’anno. Risulta difficile, perché invece, personalmente, ho trovato questo film non privo di una sua autenticità e ricco di spunti di riflessione. Molti critici rimproverano a Moretti la banalità della trama, che rende il film poco credibile in certe sue parti; lo accusano di essersi imborghesito al punto da perdere la sua verve e la sua arguzia, quello spirito ironico e sottilmente polemico di cui è permeato “Io sono un autarchico”. Gli contesta anche il venir meno della freschezza e della leggerezza che aleggiavano e accompagnavano garbatamente l’impegno in altri film del suo passato, come in “Caro diario”. E’ la prima volta che Nanni Moretti si cimenta nella trasposizione cinematografica di un’opera letteraria: il film infatti è tratto dal romanzo “Tre piani”, di Eshkol Nevo, scrittore israeliano. La storia originale è ambientata in un quartiere borghese di Tel Aviv. Il regista la trasporta in Italia, e gira il film in una palazzina del quartiere Prati di Roma. Apporta dei cambiamenti alla trama, rincarando con forza i legami tra le famiglie. I tre piani cui fa riferimento il titolo del film, sono i piani di un’abitazione elegante e ordinata, la cui facciata cela il disordine interiore dei protagonisti. Tre piani, tre famiglie: al piano terra abita Lucio (Riccardo Scamarcio), insieme alla moglie Sara (Elena Lietti), e alla figlioletta Francesca, di sette anni. Accanto abitano Renato (Paolo Graziosi) e Giovanna (Anna Bonaiuto), cui Lucio e Sara affidano la bambina tutte le volte che devono uscire. Al secondo piano abita invece Monica (Alba Rohrwacher), giovane donna alla prima esperienza di maternità, lasciata per lunghi periodi sola dal marito Giorgio (Adriano Giannini), che lavora all’estero come ingegnere. Al terzo abitano Dora (Margherita Buy) e Vittorio (Nanni Moretti), entrambi giudici e genitori di Andrea (Alessandro Sperduti), un giovane di vent’anni che, ubriaco, investe con la macchina una donna, cagionandone la morte. Tre piani, e tre gli strati dell’Io secondo Freud, simboleggiati rispettivamente da Lucio, che impersona l’Es, ossia la parte istintuale della personalità; da Monica, che invece è l’Io, dato dalla mediazione tra impulso e censura; e da Vittorio, che rappresenta il super Io, ossia l’area del controllo e del divieto. Lucio, che non riesce a tenere a freno le sue pulsioni istintuali, essendo un emotivo, vivrà col dubbio di una violenza sessuale perpetrata ai danni della figlia da Renato, cui era stata affidata. E tanto tormenterà quel povero vecchio, accusandolo ingiustamente, da trasformarsi da bonario vicino di casa, a causa della sua morte. Ma, sempre per la sua impulsività, rimarrà invischiato in un processo per abuso sessuale nei confronti della minorenne Charlotte, nipote di Renato e Giovanna. Monica, lasciata troppo sola dal marito, al punto da essere chiamata dai compagni di scuola della figlia “la vedova”, diventerà vittima delle proprie turbe psichiche, nel lento processo di immedesimazione con la madre, malata psichiatrica a sua volta. Vittorio, dopo l’incidente, entrerà in forte conflitto con il figlio Andrea, cui rimprovera la sregolatezza, ritenendo giusta la condanna che gli viene comminata per l’omicidio commesso, sia pure involontariamente. Il figlio arriverà a prendere a calci il padre, e si allontanerà da casa. E la moglie, che si trova tra due fuochi, sarà costretta dal marito a schierarsi con lui, pur continuando a cercare il figlio di nascosto nel tentativo di riavvicinarli. La morte del marito, seppure vissuta con intenso dolore, segnerà l’inizio di una rinascita per la donna, finalmente libera di vestirsi con abiti colorati, e di riavvicinarsi al figlio e alla famiglia che nel frattempo lui si è costruita. La vita irrompe lentamente nel film, che prende alla fine un’inaspettata piega di speranza e di positività. La conclusione è emblematica: davanti ai protagonisti passano i danzatori di tango illegal, che con i ​colori dei loro abiti, e con le loro movenze eleganti e sensuali, riescono a riportare un sorriso sui loro visi. In quella clandestinità, in quella lontananza dagli schemi e dagli stereotipi sociali, ciascuno dei protagonisti appare libero di essere finalmente se stesso, e di apprezzare il lato bello della vita, che comunque c’è, sia pur nascosto dalle mille difficoltà quotidiane: occorre coglierlo, senza farsi sopraffare dalle avversità. Molti critici hanno trovato questo film non all’altezza dei film precedenti di Moretti: la sua regia è stata giudicata degna di un serial televisivo. Personalmente trovo questo film minimale, essenziale. Questa svolta così intimista, che si coglie nella scelta di concentrare la narrazione in ambienti circoscritti, quali appunto gli appartamenti di una palazzina, ben si accorda con l’età di Nanni Moretti, ormai vicino alla settantina. E’ normale che a quest’età Moretti deponga le armi affilate che aveva brandito in passato, e abbia toni più pacati e moderati. E del resto, perché se la stessa svolta viene accettata con entusiasmo negli ultimi film di Almodovar, non si deve fare altrettanto con i film di Moretti? Di tutti i personaggi, indubbiamente il più intenso, a mio avviso, è quello di Dora, oscillante tra la figura del marito, così severa da non lasciare aperture ad alcun perdono, e quella del figlio, per il quale la sregolatezza è l’unica strada da percorrere per ribellarsi a un padre così soffocante. Salvo poi redimersi, alla fine del film, sposandosi e diventando un apicoltore. Ma anche le altre figure incarnano in modo efficace tutte le problematiche della società di oggi: Lucio e Sara, per esempio, con la loro storia mettono in scena le difficoltà della gestione del matrimonio, i contrasti inevitabili tra i coniugi sull’educazione dei figli e nella ricerca di tempi da dedicare a se stessi; la figura di Monica invece simboleggia la solitudine in cui a volte vengono lasciate le donne all’interno del matrimonio, solitudine che può esasperarsi fino a portare alla depressione. Trovo che Moretti non si sia affatto conciliato con la classe borghese, se pensiamo che tutti questi drammi si svolgono all’interno di un’elegante palazzina. E’ appunto evidente il gioco dei contrasti tra apparenza incantata e crudo disincanto, tra vita e morte, già fin dai primi fotogrammi, che vedono da una parte l’incidente mortale, dall’altra il parto solitario di Monica. Per cui ritengo che il film di Moretti sia senz’altro da vedere, non foss’altro per riflettere sulla crudezza e sulla fatuità al contempo di certa società. La fatuità di Charlotte, per esempio, che istiga Lucio a consumare un rapporto sessuale con lei, vendicando così il nonno. La regia è comunque attenta a dare a tutti i personaggi lo stesso spazio, realizzando così un film corale. Bravi e credibili tutti gli attori. Da vedere.

(Fonte immagine: Facebook)