Di Fabio Gagliano.

Durante l’età giolittiana, la valuta circolante era proporzionale alle riserve auree del Regno. Ciò accadeva in Italia, nei principali Paesi europei e negli U.S.A., facilitando le transazioni ed i commerci internazionali mediante la stabilità delle monete e la certezza dei cambi tra diverse valute.

Ma questo risultato venne ottenuto ad un costo umano incalcolabile. Dall’inizi del 1900 circa dieci milioni di italiani, nessuna regione esclusa, lasciarono l’Italia per emigrare, principalmente verso l’America, negli Stati Uniti in Perù, Argentina e Cile.

L’emigrazione fu una solida base della politica giolittiana. Da un lato, infatti, l’emigrazione risolveva drasticamente problemi sociali incombenti ed enormi, semplicemente espellendoli dal Paese, dall’altro il governo poté contare sull’enorme massa di valuta pregiata che gli emigrati stessi inviavano In Italia alle loro famiglie. Se, come detto, l’emigrazione interessò tutte le regioni italiane, lo stesso non può dirsi circa gli effetti e le conseguenze sui tessuti economico-sociali delle diverse realtà locali. Il nord risultò geograficamente e politicamente favorito dalle nuove politiche industriali. Le sostanziose commesse statali per armamenti e ferrovie vennero sempre più spesso affidate alle aziende del triangolo Milano-Torino-Genova, mentre il sud restava indietro. Soprattutto, furono i territori a più forte vocazione agricola e pastorizia (Abruzzi, Calabrie, Sicilia e Basilicata) a vedersi disgregata la società contadina, senza che venisse attuata alcuna riforma in grado di offrire prospettive diverse dall’emigrazione.

Un esempio significativo è quello della cantieristica navale, prima “fiore all’occhiello” dell’industria borbonica, con gli stabilimenti del Napoletano e siciliani. Se negli anni intorno al 1870 la costruzione della corazzata Duilio, ammiraglia della flotta militare italiana, era stata affidata al cantiere di Castellammare di Stabia, da quel momento, la produzione fu progressivamente trasferita a Genova, tanto che, alla vigilia della Grande Guerra, una sola delle sei grandi navi da battaglia era stata costruita a Castellammare.

Andando a vedere l’avvicendarsi dei governi in Italia, ci accorgiamo che dopo Crispi e Di Rudini nessun meridionale (e nessun siciliano) avrà più ministeri “forti” come gli Interni, la Guerra, le Colonie, i Lavori pubblici e l’Agricoltura. L’assenza politica meridionale e siciliana in questi ministeri ha avuto, senza dubbio, la sua efficacia nel determinare la diversa velocità di sviluppo tra nord e sud. I fondi in bilancio in questi ministeri venivano dirottati in proporzione molto maggiore verso il centro nord che non verso il sud.

I finanziamenti ministeriali per l’agricoltura erano destinati prevalentemente all’Emilia e alla Val Padana, in risposta alle richieste socialiste per le opere di bonifica. La disattenzione per l’industrializzazione dell’Isola era poi pressoché totale. All’inizio del secolo i Florio avevano fondato un vero impero economico-finanziario ma dopo la caduta di Crispi e poi del Di Rudinì la loro influenza su Roma venne a cessare quasi di colpo. Per fare qualche esempio i Florio avevano chiesto finanziamenti per costruire il Cantiere navale a Palermo ma degli 80 milioni di commesse della marina militare ai Florio non arrivò neanche una lira e mentre le industrie di Milano ottennero 150 milioni per le ferrovie ai Florio non fu affidata neanche la commessa per la costruzione dei carri ferroviari per la Società Sicula. In questo caso però non possiamo fare a meno di notare che pur avendone la possibilità i Florio anziché favorire la formazione di un partito industriale nell’isola che perseguisse lo sviluppo industriale, cioè quello che gli stessi Florio avrebbero dovuto perseguire, si schierarono clamorosamente con gli obsoleti partiti agrari. Si schierarono cioè con le famiglie aristocratiche e decadute delle loro mogli. Di quelle mogli che avevano cercato e sposato per dare una giustificazione alla loro ascesa sociale. Gli agrari, miopi e conservatori non spinsero mai verso l’industrializzazione ma verso il mantenimento della “industria agricola”.

È in questo periodo che Ignazio Florio fonda il giornale L’Ora chiamando a dirigerlo Vincenzo Morello. Il giornale nasce come un giornale d’opposizione ma l’opposizione era volta non a difendere gli interessi industriali dell’isola ma gli interessi degli agrari e della vecchia aristocrazia latifondista. Il maggior referente della politica dei Florio fu Sonnino che rappresentava gli interessi agricoli nazionali e non Giolitti che rappresentava invece l’avanguardia, cioè gli interessi industriali nazionali. Fu proprio il fatto che Giolitti non favoriva gli interessi degli agrari meridionali che portò Salvemini a definirlo “ministro della malavita”, perché, Giolitti, vecchia volpe della politica, in cambio del sostegno parlamentare della borghesia agraria e dei latifondisti meridionali, tollerava che nel mezzogiorno venissero calpestate la libertà e le più normali regole di civile convivenza. Continuava nell’isola, come nelle altre provincie meridionali, il dominio del padrone tanto è vero che nelle elezioni del 1900 mentre il nord elegge deputati che puntano alla modernizzazione, a sud si continuano a mandare al parlamento i rappresentanti dell’ala più restauratrice e conservatrice. Questo stato di cose avrebbe portato ad un divario sempre più ampio tra nord e sud.

Paradossalmente, il primo a non capire che il tentativo di mantenere certi privilegi feudali avrebbe segnato una decadenza e uno sfruttamento delle regioni meridionali sia stato proprio Ignazio Florio e che con questo ha segnato in maniera irreversibile il declino e la fine della dinastia. Eppure, Florio non era un latifondista ma un industriale. Il programma di Florio si realizzò parzialmente con lo sviluppo del credito agrario e del movimento della cooperazione agricola, Giolitti non era un fautore del partito agrario e non lo appoggiò mai pur avvalendosi, per formare i suoi governi, della rappresentanza della borghesia agraria meridionale. Tuttavia, se a Palermo regnava Ignazio Florio, a Catania “regnava” Giuseppe de Felice Giuffrida che non era un industriale, ma era un socialista riformista. Giolitti, mentre trattava i Florio con sufficienza, assicurava a Giuffrida lo stesso sostegno politico che dava al nord, tanto che Catania divenne la capitale industriale del sud. Giolitti dal canto suo non chiamò mai al suo governo i cosiddetti ascari, ma il fior fiore della intellighenzia meridionale (Vittorio Emanuele Orlando, Angelo Majorana, Camillo Finocchiaro Aprite, Luigi Sturzo e Napoleone Colajanni) ma che poco facevano se non assecondare i desideri di una certa classe sociale o opporre loro uno sterile dissenso.

Da un altro punto di vista se il movimento agricolo siciliano avesse potuto ispirarsi ai fasci siciliani e non all’aristocrazia del latifondo, il risultato avrebbe potuto esser diverso. Ma i Fasci Siciliani erano stati repressi nel sangue, da siciliani come Crispi ed i contadini siciliani e meridionali non furono riconosciuti come proletari e furono abbandonati dal partito socialista che aveva già stabilita la “padanizzazione” a scapito della meridionalizzazione o, cosa più rara ancora, dell’italianizzazione.

La Sicilia ha avuto grandi capi sindacali ma non è mai stato concesso loro di superare la provincia. Sindacalisti come Bernardino Verro o Nicola Barbato hanno predicato o sono morti invano. È in questo triste periodo che si acuisce il fenomeno dell’emigrazione. I poveri non credono più a una rinascita. Possono solo andarsene e ricostruire altrove. Il fenomeno migratorio arricchirà, e molto, chi resta e gestisce questo traffico migratorio, in parte legalmente e in molta altra parte illegalmente.

Anche l’industria zolfifera entrò nel 1905 in uno stato di crisi. Infatti, In quell’anno scadeva il contratto decennale con la “Anglo-Scilian Sulphur Conpany” voluto nel 1895 dai Florio, che rilevava e collocava il prodotto a prezzi prestabiliti, a causa della concorrenza dello zolfo fuso americano che per l’estrazione si avvaleva del moderno metodo Frasi, che pare non potesse essere applicato in Sicilia per motivi geologici. Venne perciò costituito il consorzio obbligatorio per l’Industria zolfifera e una Banca di Credito minerario che impose la riduzione della produzione in quantità tale da essere smaltita. In qualche modo tamponò la crisi. Scaduto il contratto la crisi fu inevitabile.

Il crollo dell’economia meridionale

Il contrasto dl interessi tra il nord industrializzato, sostenuto dalla politica e inserito nel contesto economico europeo e americano, e il sud agricolo, condizionato dagli sfavorevoli fattori geopolitici e strutturali e condannato al ruolo subordinato di consumatore e all’esercizio di una economia depressa, gravò sempre più sul meridione e la Sicilia. I produttori agricoli del sud subivano contemporaneamente la caduta dei prezzi dei prodotti agricoli e inoltre pagavano al nord per l’acquisto del manufatti come macchinari, fertilizzanti, etc. che invece erano sovvenzionati, con lo sconto alla produzione, dalle sovvenzioni pubbliche che ricevevano.

Gli Intellettuali dell’epoca deplorarono Il “perfido gioco” di una classe politica che favoriva l’industria contro l’agricoltura e all’interno dell’agricoltura favoriva la Coltura del grano a danno di altre colture più ricche e accusarono lo Stato di sottrarre capitali all’agricoltura per favorire l’Industria a danno delle zone agricole più povere e più deboli. Rimasero inascoltati.

A contribuire pesantemente a questo stato di cose vi era chiaramente una corresponsabilità della classe politica e della borghesia meridionale, fra cui Vittorio Emanuele Orlando, Angelo Majorana, Camillo Finocchiaro Aprile, Nunzio Nasi e tanti altri meridionali si avvicendarono nei governi Giolitti. Nessuno di loro fece nulla per migliorare realmente le condizioni del sud e per questo furono aspramente criticati da Gaetano Salvemini ed Antonio Gramsci.

Inoltre, quasi non bastassero le condizioni di depressione in cui il Sud si dibatteva, il 28 dicembre 1908 un cataclisma si abbatté su Messina e Reggio Calabria. Messina fu completamente distrutta e sotto le macerie rimasero oltre 100.000 vittime. Anche Reggio Calabria cadde con oltre 12.000 vittime.

Il Meridione era diventato, come scrisse Ferdinando Ritter nel suo libro “La via mala”: -una immane colonia di sfruttamento umano, dove nuovi negrieri razziavano ogni anno, non più africani ma un crescente contingente di disperati bianchi il cui numero sali progressivamente da 107 mila media annua del periodo 1876.1880 a 310 mila -media annuo del periodo 1896-1900; 554 mila – media annua del periodo 1901-1905; 6511 mila -media annua del periodo 1906-1910; 711 mila – media dell’anno 1912; 872 mila – nell’anno 1913, anno di vigilia della prima guerra mondiale, che troncò questa tratta sino alla fine delle ostilità, per fornire carne da cannone in abbondanza alle offensive, negazione della strategia di un altro piemontese. Nessun documento, meglio di queste cifre potrebbe illustrare i risultati economici e sociali della politica della borghesia italiana “liberale” di quegli anni-.

Fonti:

1.            “Le province siculo-partenopee nel Regno d’Italia ”

2.            “L’Età Giolittiana – il portale del sud”

3.            “05 | novembre | 2011 | Mis1943news – La voce del Movimento”

4.            AA.VV. Storia della Sicilia, Società Editrice Storica di Napoli e Sicilia

5.            Di Matteo, F., Storia della Sicilia, Edizioni Arbor, 2006

6.            Mack Smith, D., Storia della Sicilia medievale e moderna, Laterza, 1971

7.            Montanelli, I., L’Italia di Giolitti, BUR

8.            Renda, F., Socialisti e cattolici in Sicilia, S. Sciascia Ed., 1972

9.            Renda, F., Storia della Sicilia, Sellerio Editore 2003

10.          Renda, F., Storia della mafia, Pietro Vittorietti edizioni, 1998

11.          Ritter F., La via mala, Milano, 1973

12.         www.ilportaledelsud.org/gioli