Recensione di Ornella Mallo 27/02/2025
Scriveva Emily Dickinson: “Noi – che abbiamo l’anima – moriamo
più spesso.” E della morte dell’anima, inflitta – come una condanna –
dalla depressione, non è frequente parlare in letteratura, come già
rilevava Virginia Woolf nel suo saggio “Sulla malattia”: “La ragione è
semplice.”, scriveva, “Guardare dritto in faccia queste cose
richiederebbe il coraggio di un domatore di leoni; una filosofia
solida; una ragione radicata nelle profondità della terra.”
Altrettanto infrequente è parlarne in una società come la nostra,
affetta da “algofobia”, come osserva il filosofo Byung – chul Han.
Questi, nel saggio “La società senza dolore. Perché abbiamo bandito
la sofferenza dalla nostra vita”, edito da Einaudi nel 2021, afferma:
«Noi viviamo in una società della positività che tenta di sbarazzarsi
di tutto ciò che è negativo. Il dolore è la negatività per antonomasia.
Anche la psicologia segue questo cambio di paradigma e passa
dalla psicologia negativa intesa come “psicologia della sofferenza”
alla “psicologia positiva” che si occupa del benessere, della felicità,
dell’ottimismo. I pensieri negativi vanno evitati e immediatamente
sostituiti da pensieri positivi. La psicologia positiva subordina
persino il dolore a una logica della prestazione. L’ideologia liberista
della resilienza trasforma le esperienze traumatiche in catalizzatori
di un aumento della prestazione. Si parla addirittura di crescita
post-traumatica. L’allenamento della resilienza in quanto palestra
dell’anima ha il compito di modellare l’essere umano nella forma di
un soggetto di prestazione il più possibile estraneo al dolore, e
sempre felice». Aggiunge però: “Una vita senza morte né dolore
non è umana, bensì non morte. L’essere umano si fa fuori per
sopravvivere. Potrà forse raggiungere l’immortalità, ma al prezzo
della vita.”
Appare, dunque, quanto mai coraggiosa l’opera di Lucia Triolo, il cui
titolo è fortemente emblematico: “Dislocazione per una
fenomenologia della depressione.” Se il termine “Fenomeno”, –
discendente dal greco “phainomai”, io appaio, – indica la
manifestazione sensibile di una realtà, “Fenomenologia”, – vocabolo
coniato originariamente in tedesco, “Phanomenologie”, dal filosofo
e matematico Lambert nel 1764,- per l’influenza di Heidegger indica
la conoscenza e il riordino dei fenomeni -percepiti ab externo o
vissuti in prima persona – mediante i quali si rivela la realtà oggetto
di osservazione. In particolare, la fenomenologia clinica si approccia
alla malattia attraverso la registrazione dei sintomi grazie ai quali si
manifesta. E la depressione non è che una vera e propria malattia,
per come osserva lo psichiatra Borgna nel libro “La fragilità che è in
noi”: “La depressione ha una dimensione semantica francamente
clinica, e psicopatologica, indicando la tristezza- malattia, e non la
tristezza – stato d’animo.” È lo stesso Borgna a definire la follia
“sorella sfortunata della poesia, con il suo lancinante dolore
dell’anima, con la sua stremata sensibilità, e con la sua straziata
nostalgia di vicinanza e amore”. Questa asserzione può
tranquillamente essere estesa a tutte le malattie psichiche in
generale, e alla depressione in particolare, patologie dell’anima i cui
sintomi possono efficacemente essere descritti attraverso il
linguaggio poetico. Infatti, Borgna rileva: “Solo rileggendo, e
tenendo nel cuore, alcune poesie, alcuni frammenti poetici, le
nostre indistinte emozioni si chiariscono in noi, e si fanno
riconoscibili nella loro concretezza e nella loro comunicabilità. Ma
non è forse per questo che la psichiatria, quella fenomenologica, già
agli inizi della sua storia, si è richiamata alla poesia, al fine di
rendere dicibili il dolore e la tristezza, la gioia e la tenerezza, che
fanno parte della sofferenza psichica?” La poesia si serve “di
immagini e di metafore, di emozioni e di risonanze arcane, che ci
aiutano a cogliere l’indicibile nel dicibile, l’invisibile nel visibile”,
sottolinea lo psichiatra.
Dunque, Lucia Triolo riveste di forma poetica la “fenomenologia
della depressione”, riferendone i sintomi da un particolare punto di
vista: quello offerto dalla dislocazione del soggetto.
A parlare in prima persona, infatti, è una donna affetta da
depressione, che snocciola, uno dopo l’altro, i segni della malattia
fuoruscendo da sé, il che le permette di distanziarsi da quanto le sta
accadendo, di posare su di sé uno sguardo quanto mai lucido, e di
essere specchio di sé stessa: “Ah quei burloni! / cosa guardano,
cosa / guardano / gli specchi, / di chi sono quegli occhi?”, leggiamo.
La paziente è un unicum con il suo doppio, e la sua psiche si snuda
srotolandosi come un nastro di Moebius: la donna vede sé stessa
ridotta a una spoglia inanimata, agonica, di cui riferisce i rantoli, le
sofferenze che la intorpidiscono e la circoscrivono, serrandola in un
sudario: “La spoglia che dorme nel mio letto / era dislocata!”,
leggiamo nei versi con cui si apre la silloge. E in altri punti è scritto:
“come fare per evitarsi? / era lei il belvedere da cui / si osservava”
[…] era lei il belvedere da cui / si affacciava, […] era lei il belvedere
da cui / si affacciava per osservarsi”.
Vengono in mente i versi di Emily Dickinson, fortemente esplicativi
di questo approccio alla propria interiorità: “C’è una solitudine dello
spazio, / una del mare, / una della morte, ma queste / compagnia
saranno / in confronto a quel più profondo punto / a
quell’isolamento polare / di un’anima alla presenza di sé stessa /
infinito finito.”
Triolo non nasconde di essersi ispirata al pittore Bacon, celebre per
avere posto al centro del quadro la figura, realizzando così una
pittura figurale, intermedia tra la pittura figurativa e la pittura
astratta.
Dare rilievo alla figura, ossia configurarla, significa sfigurarla,
decomporla fino a trasfigurarla nel fatto, cioè nella sua verità.
Bacon dipinge corpi deprivati degli organi che li compongono,
organi che precipitano dalla bocca spalancata in un grido: “la testa
diventa dunque una sorta di potenza illocalizzata della carne”, e la
bocca “non è più un organo particolare, ma è il foro attraverso cui il
corpo fugge e dal quale la carne discende”, scrive Gilles Deleuze in
“Francis Bacon – La logica della sensazione”. Al centro del quadro,
dunque, oggetto della pietas del pittore, è una carne non morta, ma
viva, dolente: “essa ha conservato tutte le sofferenze e ha preso su
di sé tutti i colori della carne viva.”, osservava sempre Deleuze nel
suo saggio, aggiungendo: “[…] ogni uomo che soffre è carne
macellata. La carne macellata è la zona comune all’uomo e alla
bestia […] essa è quel «fatto», quel particolare stato in cui il pittore
si identifica con l’oggetto del proprio orrore e della propria
compassione. Il pittore è macellaio, certo, ma egli sta nella sua
macelleria come in una chiesa, con la carne macellata come
Crocifisso.” Diceva Bacon: «Le immagini dei mattatoi e di carne
macellata mi hanno sempre molto colpito. Mi sembrano
direttamente legate alla Crocifissione […]. Che altro siamo, se non
potenziali carcasse? Quando entro in una macelleria, mi meraviglio
sempre di non esserci io appeso lì, al posto dell’animale.»
L’approccio di Bacon al dolore è fenomenologico nella misura in cui
nei suoi quadri egli rende visibile il grido, ma non le forze
generative del grido, che sempre secondo Deleuze sono le invisibili
“forze dell’avvenire” di cui parlava anche Kafka; per questo Bacon
affermava di “Dipingere il grido anziché l’orrore”.
Alla stregua di Bacon, la Poetessa mostra una donna senza volto,
depauperata della sua identità, della capacità di provare emozioni,
sfigurata dalla perdita del desiderio e dall’assenza di voglia di
vivere, sintomi, tutti questi, di depressione: “furti di immagini senza
volti ad avvolgere destini senza storie / scimmiottando presenze
senza scarpe da mattina a sera”. La paziente è condannata dalla
malattia a una morte civile. Ma la morte che attraversa la sua
anima potrebbe essere la nostra morte, considerato che la fragilità
e vulnerabilità della condizione umana espone ciascuno di noi a
condividere lo stesso destino della donna protagonista dell’opera.
Triolo scrive infatti: “come somiglia a una scimmia / la mia morte /
come somiglia alla mia scimmia / la loro morte // forse ci sono
dentro i miei occhi”.
L’opera, che si articola in cinque tempi, è preceduta da un “Ante
litteram” in cui la donna si rivolge direttamente al lettore, e lo
apostrofa dicendo: “Cosa ne sai di una disperazione che / procede /
ammobiliando il volto / con oggetti rotti? //”; chiude il preambolo
dicendo: “la bestia in me insiste / come un sudario nero / a ringhiare
contro la carne / di parole // io non ne posso più!”
Notiamo come sia efficace il processo di immedesimazione tra la
Poetessa e la paziente, al punto da dissolversi il confine tra le due
identità, e tra queste e quella del lettore: è la Poetessa, la paziente
o chi legge a rivolgersi a sé medesimo, oppure agli spettatori? Certo
è che il lettore viene immediatamente posto davanti alla
protagonista dei versi, al centro di una scena “che si accomoda da
sola”, possiamo dire, parafrasando la citazione di Eliot esergo
dell’intera opera: sembra che la Poeta sollevi il sipario e collochi al
centro del palcoscenico la paziente, e tutto viene rappresentato in
una stanza claustrofobica, esalante il gelo e i respiri della malattia:
“le piombava addosso il respiro / della stanza / entrato col gelo di
cancelli chiusi in notti abbracciate / e perdute / sempre a caccia di
mura disilluse tra cui nascondere / peccati e vergogna”. Tutto
avviene esattamente come nei quadri di Bacon: “sui mobili di casa /
foto tutte senza volto // somigliare a qualcuno che non si conosce /
flussi spietati di cornici / senza stimoli: // la propria preistoria / senza
fattezze // come un quadro di Bacon”, scrive Lucia.
Nel processo di annichilimento psichico, il primo sintomo è la
liquefazione dell’io, svalutato a causa della malattia. Leggiamo:
“complottava con se stessa / contro di sé, contro l’io, contro il me: //
a chi ruberò / me stessa in / nessun luogo ?”
Nel suo cammino, oltre che da Bacon, l’Autrice si fa accompagnare
dal poeta T.S.Eliot. Ogni tempo in cui si articola la silloge, infatti, è
preceduto da un esergo tratto dalle opere più rappresentative del
pensiero dello scrittore britannico-statunitense, pensiero incentrato
sulla crisi valoriale e sociale che già albeggiava nei primi anni del
Novecento, e che sarebbe persistita per tutto il secolo fino ai nostri
giorni, e sulle sue ripercussioni a livello esistenziale nell’uomo. Lo
stralcio “Tu lasci che la scena si accomodi da sola”, attinto da
“Ritratto di signora”, posto ad incipit della prima sezione della
fenomenologia, intitolata “Risveglio”, sottolinea l’ineluttabilità della
depressione, che investe e divora indipendentemente dalla volontà
dell’individuo che ne è affetto; gli eserghi “A che stai pensando?
Pensando a cosa? A cosa? / Non lo so mai a cosa stai pensando.
Pensa”; e “Non è per niente questo che volevo dire. Non è questo,
per niente”, rispettivamente tratti da “Una partita a scacchi” e da
“Il canto d’amore di J.Alfred Prufrok”, sottolineano l’ineffabilità delle
forze distruttive che disintegrano il mondo interiore della paziente,
esattamente come Bacon dipinge il grido e non l’orrore. Evidente il
parallelismo tra i due artisti: i versi tratti da “Il canto d’amore di J.
Alfred Prufrock” di Eliot, “È impossibile dire quello che voglio dire! /
Ma come se una lanterna magica avesse proiettato i nervi in schemi
su uno schermo”, sono perfettamente speculari al pensiero di
Bacon: “La pittura è lo schema del proprio sistema nervoso
proiettato sulla tela”. Non solo: la mancanza di comunicazione è al
tempo stesso causa ed effetto della depressione: la donna,
sentendosi impedita nell’esprimersi, e respinta da un ambiente
percepito come ostile, si chiude in un serrato silenzio. Ecco il
controcanto di Triolo ai versi di Eliot: “nel mio letto la spoglia /
prendeva sempre più / le incerte sembianze / dell’a malapena / il
suo silenzio restava nei pressi / di quello di un altro // e tutto era /
immensamente estraneo”. Emblematica la chiusa dell’Epilogo,
ultimo tempo della fenomenologia: “Com’era piccola quella gola /
per quell’urlo // Ma non è questo che / volevo dire!”. Ritorna l’urlo di
Bacon.
A “Risveglio” segue: “Affrontarsi”, in cui la protagonista, dislocata, si
scaglia contro sé stessa: “ci aveva fatto quasi il callo, / sbattere /
sbattere sul fianco della / nave affondata // mentre affonda e
continua…”; “Evitarsi”, in cui la paziente non riesce ad allontanare
da sé quella consapevolezza che amplifica fino all’esasperazione il
dolore: “ben poco le sfugge // nemmeno ciò che / è stato cancellato
a malapena / sul suo vecchio ossessivo / schermo / in quel continuo
film che la guardava //”; “Pensieri”, in cui la malata, avviluppata nei
suoi pensieri di morte come in un sudario, incuba la propria fine:
“complottava con se stessa / contro di sé, contro l’io, contro il me”;
“Ragnatele”, in cui la donna vorrebbe ricucire in una tela i pezzi in
cui è frantumato il proprio io, salvo poi scoprire di tessere ragnatele
bucate, vischiose e fragili: “ma quelli tra i suoi frammenti / erano /
tutti occupati a tessere odiose / tele bucate // da bucare ancora di
più / tanto che lei ormai faceva fatica a distinguere / tra banalità e
follia.”; e infine l’Epilogo, di cui abbiamo parlato, in cui
drammaticamente la protagonista dell’opera afferma: “la donna
furtiva che / ti cammina accanto / accoglie per te sterpi e non luce //
racconta di come rallenta / in coppia con se stessa / a farti lo
sgambetto / sazia dei suoi freddi / a divorare brandelli di parole”.
Lucia Triolo apre tuttavia la sua opera alla possibilità di guarigione,
e dopo la fenomenologia, nell’ultima sezione della silloge, intitolata
“Ricorda”, individua la strada per la rinascita nel ritrovamento
dell’autostima, e nella riscoperta dell’amore per sé stessi, sfociante
poi nell’amore verso gli altri. La vita umana ha un immenso valore,
hanno valore i sogni, che non vanno demoliti, ma coltivati:
“ricorda: / il tuo sogno / era di stirpe regale, / un principe dall’alba al
tramonto / e nel buio della notte / a lui tutta la corte si inchinava //
dillo ai tuoi figli / perché imparino a gestire / […] l’odio // e senza
annientarti / ti riportino a casa”. Dunque, la chiave di tutto è
l’amore: “non cedere di amare / mi sono allontanata / solo per un
momento!”, scrive Triolo nell’”Epilogo”.
Grazie all’amore si rinfocola la speranza, che dà senso alla vita.
Illuminante quanto scrive lo psichiatra E. Minkowski: “La speranza
va più lontano nell’avvenire dell’attesa. Io non spero nulla né per
l’istante presente né per quello che immediatamente gli subentra,
ma per l’avvenire che si dispiega dietro. Liberato dalla norma
dell’avvenire immediato, io vivo, nella speranza, un avvenire più
lontano, più ampio, pieno di promesse. E la ricchezza dell’avvenire
si apre davanti a me”.
Lì dove si svuota della sua ricchezza l’attesa dell’avvenire, prende il
sopravvento la malattia. Ecco perché Pavese scriveva: “Aspettare è
ancora un’occupazione. È non aspettare niente che è terribile.” Il
controcanto della poetessa: “vesti colorate a / grazia e
disperazione / nei paraggi dell’attesa”.
Da un punto di vista formale, Triolo si serve di un linguaggio scarno,
metaforico ed essenziale a un tempo, e proprio in questo risiede la
sua potente efficacia. Da notare, peraltro, come i versi appaiano
graficamente dislocati durante tutto il cammino in cui si articola la
fenomenologia, mentre sono perfettamente allineati nel “Ricorda”
conclusivo, così da dare anche visivamente il segno della possibilità
di guarigione.
Il cammino allora si rivela un vero e proprio travaglio, che si
conclude con un parto di sé stessi, rinnovati, come scrive Clarissa
Pinkola Estés: “Talvolta il vuoto non è assenza, ma una lunga
gestazione. Per i parametri dell’Io la gestazione è sempre tropo
lunga, ma per i parametri dell’anima i tempi dell’attesa e
dell’elaborazione interiore sono sempre quelli che devono essere. Il
vuoto è una dimensione ancestrale in cui la vita si ri-partorisce.”