Recensione a cura di Ornella Mallo 17/04/2025
Nel romanzo “Al Faro”, Virginia Woolf scriveva: “C’è una specie di
tristezza che si prova quando si sa troppo, quando si vede il mondo
così com’è realmente. È la tristezza di rendersi conto che la vita non
è una grande avventura, ma una serie di piccoli e insignificanti
momenti, che l’amore non è una favola, ma un’emozione fragile e
fugace, che la felicità non è uno stato permanente, ma uno sguardo
raro e fugace a cui non potremo mai aggrapparci. E in questa
comprensione c’è una profonda solitudine.” In questa citazione è
racchiuso lo stato d’animo che pervade la silloge poetica
“Formulario per la presenza” di Francesca Innocenzi. L’opera è in
realtà un’autoantologia composta da poesie scritte dall’autrice in
tempi diversi, e la selezione è stata frutto dello sguardo retroattivo
che la poetessa ha rivolto verso il suo passato. Un passato
sedimentato, da cui Innocenzi trae la luce per fugare le ombre del
presente. Man mano che si procede nella lettura, infatti, le liriche
appaiono come tappe del percorso che ha condotto la Nostra verso
la disincantata conoscenza del mondo nella sua essenza.
Il titolo “Formulario per la presenza”, allora, è quanto mai indicativo
di una presenza a sé stessa, conquistata da Francesca al termine di
una serie di esperienze, rivelatesi prodromiche dello squarcio del
velo ingannevole teso dalle apparenze, che allontanano l’Uomo
dalla Verità.
La Poetessa sposa la visione che della poesia ha Alberto Savinio,
quando scrive ne “La nuova enciclopedia”: “la poesia, cioè a dire la
facoltà che ci consente di vedere, di capire, di sentire le cose nella
loro totalità e fino alla radice, ossia fino a quel punto in cui le cose e
gli uomini più diversi ritrovano la loro essenza comune”. Gli fa da
contraltare Innocenzi nella postfazione della sua silloge: «Questa
piccola raccolta è per me un formulario per la presenza, poiché ogni
verso è una pietra miliare in più verso l’esserci, in me stessa e per
me stessa, nel mondo e per il mondo. Vuole essere un esercizio per
travalicare la narrazione di un io intrappolato nel dolore,
attraversare la parola per approdare al luogo dove superarla,
annientarla: “qui/ non chiedere parola / ma rimani / in qualunque
tempo e forma tu sia”»
Presago di tutto ciò, è proprio l’esergo posto dall’Autrice in apertura
della plaquette: “T’allontanasti, e di nuovo nell’anima / si fece
chiaro e deserto.”
Sono i due versi finali della poesia “Turbamento” di Anna
Achmatova, poetessa russa che ha conosciuto e saputo cantare
l’amore in tutte le sue sfaccettature, incluse quelle amare della fine,
epilogo triste ma chiarificatore dei reali sentimenti degli amanti.
Esponente dell’acmeismo, corrente poetica da cui ha ricavato il suo
pseudonimo, Achmatova ha composto una poesia strettamente
aderente alla realtà, sia personale che storica, di cui ha saputo
decrittare i più intricati inganni, decodificandola con sapiente
consapevolezza, dissolvendone tutte le illusioni.
Innocenzi rivolge nei confronti della vita lo stesso sguardo critico
della poetessa russa, e rilegge con occhi smagati un passato che
credeva pieno di presenze, dissoltesi invece in poco più che ombre
nel presente. Esplicativa di questo sentire è la poesia che apre la
silloge, intitolata “Un ricordo”, scritta nell’estate 1995: “ombre di
gatti / sono strisce di bisce / serpeggianti verso gli orti. / Tutto è
passato / ma sento ancora il profumo del sole / su quei drappi
abbandonati al vento”. Ricordare permette alla mente di rievocare
con nitidezza un passato il cui ritorno è impossibile, ma che esala
ancora il suo profumo.
In questa lirica è possibile cogliere echi della poesia achmatoviana
(pensiamo ai versi “Ma colui che io considero il maestro / passò
come un’ombra e non lasciò ombra”, tratti dalla lirica di Achmatova
“Il maestro”), e anche reminiscenze montaliane: non solo la stessa
sonorità dei famosi versi “schiocchi di merli, frusci di serpi”
contenuti in “Meriggiare pallido e assorto”, una delle poesie più
conosciute di Montale, ma percorre tutta la silloge la sua stessa
visione nichilista, la sua stessa consapevolezza della fugacità della
vita e della sua corsa verso l’ignoto, che comunque è condivisa
anche da Achmatova. Nella poesia “(a mia madre)” leggiamo infatti:
“quando ci si chiede di te si pensa / che il dopo è un codice a barre
sul nulla / agonie da camera di tarli legnosi / che si sfrangiano / e si
smateriano come cenere in un’urna / momentaneamente riposta /
da offrire in pasto a un cetaceo di pietra / nella marina verde oltre il
cancello”. Impossibile non pensare ai versi di Montale: “Forse un
mattino andando in un’aria di vetro, / arida, rivolgendomi, vedrò
compirsi il miracolo: / il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro / di me,
con un terrore di ubriaco. // Poi come s’uno schermo,
s’accamperanno di gitto / alberi case colli per l’inganno consueto. /
Ma sarà troppo tardi; ed io me ne andrò zitto / tra gli uomini che non
si voltano, col mio segreto.”
L’atmosfera decadente che avvolge e permea i versi è
ulteriormente confermata dalla scelta dei versi incipitari di “Non ho
dimenticato” di Baudelaire, posti dalla Innocenzi in esergo a un’altra
sua poesia, senza titolo, in cui scrive: “capitava l’aroma del caffè la
mattina / a sollevarsi dai fornelli imbiancati / come sepolcri / ad
approssimare l’ora del commiato / mia nottambula gioia, / a
restituire il vero”. Il risveglio scrosta la vernice bianca dai sepolcri,
discioglie ogni ipocrisia, e riporta a una realtà assai lontana da
come la si era immaginata. Resta però l’aura del ricordo
dell’illusione, a ingentilirla. Da qui lo stralcio dei versi attinti da “I
fiori del male” di Baudelaire: «“Je n’ai pas oublié, voisin de la ville /
Notre blanche maison, petit mais tranquille” (Non ho dimenticato,
accanto alla città / la nostra casa bianca, piccola ma silenziosa)»
Utile riportare quanto, a proposito dei “Fiori del male”, ha scritto
sempre Alberto Saviano ne “La nuova enciclopedia”, in quanto può
benissimo essere traslato alla plaquette della Nostra: “Questo
sapore di dolore e di morte che si sente nella poesia di Baudelaire;
questa vacanza in essa dell’autorità metafisica; questa assenza in
lei di alte protezioni; questo suo starsene isolata sulla terra in
mezzo agli uomini le cui speranze e illusioni impallidiscono alla luce
del sole e rivelano il povero trucco che le fa giocare; questo suo
starsene sotto il cielo spopolato di divinità – è questa la ragione per
cui la poesia di Baudelaire è chiamata decadente? … Ma forse non
basta. E bisognerebbe dire ‘poesia mortale’ a differenza dell’altra
che era immortale. Ma vi è più grandezza nell’immortalità o nella
mortalità? Una idea mi si aggira in testa da molto tempo, di un dio
greco (Ermete) il quale è stanco della immortalità, della sua ‘inutile’
immortalità, e vuole farsi uomo per poter morire. Anche la poesia
un giorno fu stanca di essere immortale, e scese nella poesia di
Baudelaire, per poter morire.”
Alla stessa stregua, nella poesia di Innocenzi prevale il senso della
caducità e della finitezza dell’uomo e di tutto ciò che lo circonda,
come se la Poetessa sentisse il bisogno di ridimensionare gli ego
che invadono e pervadono la società di oggi, ed il loro delirio di
onnipotenza. Leggiamo infatti: “Perché tu sei carni tremule / come
farina complice, arresa / nell’ora del mistero // sei il ramo d’ulivo
sull’erba in autunno / sotto la mano del falciatore / che ti solleva
reciso in canto / nell’aria intrisa d’olio e di pruno // e del canto hai
parvenza di mare / del frutto di scoglio la corazza / e l’ansia febbrile
del non abbandono / nel palmo di chi ti coglie appena / di
passaggio”. La condizione umana viene descritta in tutta la sua
fragilità e vulnerabilità, ribadita e motivata da un tempo di cui viene
affermata e confermata la fuggevolezza. Dal “tempo trascorso”,
“foto dove non sai se guardare o morire // ovunque tentato trapassa
il morire / nel vaso debitamente deposto // non dire dove dilegua lo
sguardo / fattosi scatto del muto sparire”, al “tempo anelato”,
“istante eterno / […] caduto come miele sul selciato / […] scherzo di
brezza sul salice muto”; dal tempo “che gioca al frantoio”, “tonfo di
carni partite al macello / mima lo scampanellio dell’arrivo”, al tempo
in cui “il taciuto imperversa.” La conclusione che la Poeta trae da
questo studio attento del tempo è particolarmente esplicitata nella
poesia “Dispersione” in cui scrive: “chiosi che ogni esistente ha fine:
/ è sgombro di parole il corridoio / altrove traslate. / giugno senza
attese le disperde / come oracolo di foglie indecifrato.”
È chiaro che la mancanza di punti fermi comporta un’instabilità
generativa di dolore nella vita dell’uomo, in generale; della donna,
in particolare, considerato che il punto di vista da cui muove la
scrittura di Innocenzi è squisitamente femminile. E sulla sofferenza
dell’essere una donna che non trova adeguato contraltare in un
uomo capace di sorreggerla e di sostenerla nel percorso di vita,
scrive in una lirica: “non mi assolverai, padre / io non sono mai stata
incolpevole / ho una ferita aperta tra le gambe / una piccola ferita
potente / […] io che mi immergo sola in melma nera / perché il mio
amato è muto per stanotte / abbozzolato in mille carni e una // non
mi conforterai, padre / ho una ferita aperta tra le gambe / ma la
detergo con il pianto ogni sera / fa’ che questo sale mi sia amante /
franto come onda in mille forme e una”.
Impossibile non ricordare l’amaro disincanto della Achmatova, e i
versi di “Ultimo brindisi”: “Bevo a una casa distrutta, / alla mia vita
sciagurata, / a solitudini vissute in due / e bevo anche a te:
all’inganno di labbra che tradirono, / al morto gelo dei tuoi occhi, /
ad un mondo crudele e rozzo, / ad un Dio che non ci ha salvato.”
Innocenzi però non si arrende all’amarezza, e si contrappone a un
mondo che sembrerebbe avviarsi inesorabilmente verso il baratro
dell’autodistruzione levando un tuonante invito all’essere presenza
umana, per sé e per gli altri. Scrive: “a te, ferita che trattieni /
questa levità di donna / dico alzati, cammina / impara l’impasto del
pane / voci reiette, latrati di cani / percorri i passati universi / e
assolvi ogni onta di male / da vacuo amore camuffata // disegna
paesaggi di luce, / se puoi, trascenditi umana. / trascorri e dilaga in
parole / detersa, mai vana.” Auspica che dilaghi il sentimento della
figliolanza della terra e di fratellanza tra gli uomini, di accoglienza
nei confronti di chi non ha la fortuna di essere autoctono: “a porti
chiusi noi stiamo / sulla marina del cuore. […] abbiamo mutato la
morte in matrigna: / ha figliastri e figli / non ci fa uguali”. Afferma la
luce dell’originalità dell’Uomo, capace di mettere in fuga le persone
– ombra, tutte uguali tra loro, omologate, le cui pelli del cuore sono
ispessite: “tu dici essere saggio l’immobile orizzonte. / ma io amo la
fronda / che scardina il novembre, amo l’ombra che risplende / la
rugiada che frantuma.” Chiude la silloge con la poesia “Non
chiedere parola”, in cui si augura che un giorno, quel Tu a cui si
rivolge in ogni lirica, interlocutore muto e latitante, diventi una
presenza im-mediata, ossia un essere a cui ci si possa approcciare
senza la mediazione della parola. Una presenza che permane in un
mondo impermanente, affinché quest’ultimo diventi un luogo che
non ospita “porte né muri / ma argini buoni e letti di pace / ed
inconquistate altezze da scalare”. Ecco allora che si chiude il
cerchio aperto dal titolo “Formulario per la presenza”.
Da un punto di vista formale le poesie appaiono estremamente
curate: i vocaboli sono scelti con estrema ponderatezza, e la
musicalità dei versi è ricercata e raggiunta attraverso rime interne,
esterne, assonanze e onomatopee, rispettando il dettato di
Verlaine: “De la musique avant tout chose”, ricordato dalla Nostra
nella postfazione.
E sulla nitidezza nella visione delle cose acquisita grazie all’impatto
con un grande dolore, Innocenzi può essere accostata anche a
Ingeborg Bachmann, poetessa da lei tanto amata da dedicarle un
saggio, contenuto nel libro “Voci dal tempo indicibile”. Opportuno
citare in chiusura cosa asseriva al riguardo la Poetessa tedesca: “E
solo dopo aver provato quel dolore segreto possiamo sentire (in
modo diverso) ogni esperienza, ed in particolare quella della verità.
Quando giungiamo a questo stato in cui il dolore diventa fertile,
stato che è insieme chiaro e triste, noi diciamo, molto
semplicemente, ma a ragione: mi si sono aperti gli occhi. E non lo
diciamo perché abbiamo davvero percepito esteriormente un
oggetto o un avvenimento, ma proprio perché comprendiamo ciò
che non possiamo vedere. E l’arte dovrebbe portare a questo: far sì
che, in tal senso, i nostri occhi si aprano”.