Prima delle famose primavere arabe (2010-2011) il peso della Russia nel settore medio orientale si era ridotto ad una minima frazione di quello che era stato durante gli anni della guerra fredda.  Mosca  non contava più su basi d’appoggio al di fuori dei confini dell’alleato  siriano e l’intera regione era entrata progressivamente nell’orbita degli Stati Uniti che, al netto degli insuccessi incassati in Afghanistan e Iraq, mantenevano in medio oriente una presenza ben salda, anche grazie al sostegno di storici alleati come la Turchia, Israele e l’Arabia Saudita.

Dal 2014 la Russia ha però iniziato ad assumere un atteggiamento sempre più interventista. Le ragioni vanno intraviste nello scontro col governo di Kiev e nell’operato del Cremlino nelle regioni russofone dell’est Europa che hanno trascinato la federazione in rotta di collisione con l’UE e in contrapposizione con la NATO, la cui immediata conseguenza è stata l’inasprirsi dei rapporti con l’occidente e un nuovo gelo nelle relazioni con Washington. Di conseguenza appare chiaro come per la Russia il Medio Oriente rappresenti l’alternativa, una vera e propria valvola di sfogo, un settore sui cui estendere la propria influenza senza rischiare uno scontro diretto con le forze della NATO. Nella speranza di trovare nuovi alleati quali la repubblica islamica dell’Iran e la Cina, con l’intento di ricoprire un ruolo politico di primo piano e creare l’impalcatura per una nuova visione geopolitica del settore, la Russia lavora ormai alacremente per ridisegnare la geopolitica del mondo arabo, nell’intento di creare una visione alternativa che si discosti da quella classica che intende il medio oriente come settore di influenza occidentale.

Compito certamente non facile dal momento che inserirsi nel complesso scacchiere medio orientale significa anche trovarsi invischiati in innumerevoli contrapposizioni regionali, come il contenzioso petrolifero (e ideologico) fra Iran e Arabia Saudita, l’ambiguità della Turchia di Erdogan nella lotta al Jihadismo e il sostegno al traballante alleato Siriano. Tutto ciò mantenendo inevitabilmente alti i toni della sfida con Washington che dal canto suo sembrerebbe perseguire un progetto diametralmente opposto a quello del Cremlino.

In realtà la Russia ha sempre mostrato una certa coerenza di fondo nei rapporti coi paesi mediorientali. Sin dall’era sovietica, ma si potrebbe andare a ritroso fino al tempo degli Zar, i russi hanno cercato di inserirsi nello scacchiere politico nord africano: sfruttando inizialmente la decadenza dell’impero Ottomano (la guerra del 1877-1878) al fine di ottenere basi stabili sul Bosforo hanno sempre cercato pretesti per estendere la loro influenza al Mediterraneo orientale. Tentativi mandati avanti con rinnovato vigore da Stalin poco dopo la fine della seconda guerra mondiale che si tradurranno in uno dei primissimi momenti di attrito con gli Stati Uniti. Ed è poco dopo il secondo conflitto mondiale che inizia a prefigurarsi la stabile alleanza russo-siriana grazie alla quale ci spieghiamo perché Mosca abbia messo da parte la sua politica non interventista per correre a puntellare l’alleato Assad.

Durante il processo di decolonizzazione, Stalin, vedendo il Bosforo irrimediabilmente interdetto al naviglio sovietico decise di appoggiare l’indipendenza siriana dalla Francia (1946), l’accordo era semplice: Armamenti sovietici per la lotta contro l’Armèe de terre in cambio di basi d’appoggio da concedere all’Armata Rossa. La successiva crisi di Suez del ’56 contribuirà a rinsaldare ancora di più i rapporti fra i due paesi. La vera svolta si avrà nel 1970, quando un colpo di stato organizzato da un ambizioso generale dell’aeronautica, Hafez al-Assad, trasformerà la Siria in un paese mono partitico, retto dal partito Baath che siglerà con l’Unione Sovietica un accordo di cooperazione economica e militare suggellandosi nella costruzione e nella cessione (in leasing) alla Russia della base navale di Tartus (ad oggi l’unico vero avamposto dell’esercito russo in Siria) che si trasformerà in uno stabile sbocco sul Mediterraneo per la marina sovietica. Da allora la base di Tartus è diventata un pilastro sia per le operazioni russe nel settore, sia per il regime di Assad che ha tutto l’interesse nel mantenere una stabile presenza militare alleata sul proprio suolo come spauracchio contro un intervento occidentale diretto e per il supporto fornito dall’aviazione militare russa nella risoluzione della guerra civile. Ma non è solo sulla Siria che Mosca ha fatto leva per attuare la propria visione geopolitica dell’area. C’è stata la piccola parentesi durante la guerra fredda dell’Egitto di Nasser (prima che quest’ultimo decidesse di schierarsi al fianco del blocco occidentale), l’Iraq di Saddam Hussein che Mosca non ha potuto difendere dall’operazione Desert Storm del 1991 e l’Iran che è diventato il naturale sostituto dell’Iraq per gli scopi del Cremlino.

L’alleanza Russo-Iraniana è forse la più salda che si possa rilevare nello scenario medio orientale, ancor più di quella con la Siria perché se è certamente vero che da una parte Damasco sia in grado di offrire il tanto agognato sbocco sul mediterraneo,  è altrettanto vero che l’Iran eserciti un enorme soft power nelle regioni circostanti e che possa quindi diventare l’alfiere e la chiave di volta per i progetti russi in Medio Oriente .L’Iran è un partner commerciale di primo piano nell’export del petrolio e, cosa più importante, soffre di un cronico isolazionismo internazionale che lo candida a scelta prediletta agli occhi della dirigenza russa. Ecco spiegato l’appoggio di Mosca allo sviluppo del programma nucleare civile iraniano e il ferreo veto della Russia verso tutti gli eventuali interventi e risoluzioni volti a dissuadere il paese teocratico in tal senso. In più la repubblica islamica è a sua volta un grande alleato del regime di Assad e la convergenza di intenti con Mosca non potrebbe che essere più chiara. Logico a questo punto pensare che la Russia voglia ridefinire gli assetti geopolitici mediorientali creando un fronte compatto con Siria e Iran che si imponga come alternativa (o che freni) l’influenza territoriale di cui godono le monarchie del golfo storicamente filo statunitensi. In più la difesa della Siria costituisce anche la difesa della Russia stessa: Un’eventuale vittoria dei ribelli siriani, o il progressivo affermarsi di attori non statali, non potrebbe che portare ad una recrudescenza delle tensioni nel Caucaso settentrionale che non potrebbe far altro che tradursi in una nuova stagione di attentati sul suolo russo. Così si comprende e ci si spiega il vigore dei bombardamenti dell’aviazione russa, la mobilitazione di gran parte della flotta e la volontà di sorreggere il regime siriano a tutti i costi, ad opera di un paese ormai divenuto restio all’utilizzo della forza militare come strumento offensivo (e non come mero deterrente) soprattutto a fronte delle esperienze maturate in Afghanistan prima e in Cecenia poi. E’chiaro quindi come Mosca, con questa mossa, stia scommettendo tutta la sua credibilità internazionale: nel caso di vittoria filo governativa in Siria, (per la verità ormai quasi certa vista la caduta dell’ultimo bastione dello Stato Islamico, Raqqa)  si creerebbe un’asse Damasco-Teheran-Baghdad (la guida politica sarebbe probabilmente in mano Iraniana) che sbilancerebbe di molto i rapporti di forza nei confronti delle monarchie del golfo. Nel caso di deposizione del governo centrale di Damasco la Russia vedrebbe irrimediabilmente chiudersi le porte verso il Medio Oriente. Con l’eventuale deposizione di Assad, la Siria entrerebbe giocoforza nell’orbita occidentale e alla Russia rimarrebbe soltanto un Iran isolato con ridotto potere contrattuale. Se invece la strategia imbastita da Mosca dovesse dare i suoi frutti la Russia non solo godrebbe di un ruolo di primo piano nel medio oriente, ma avrebbe anche l’appoggio di uno dei maggiori produttori di petrolio mondiali: lo stesso Iran. A questo punto una Cina, in perenne ascesa economica e affamata di risorse (soprattutto combustibili fossili) non potrebbe che cementificare l’alleanza e la Russia sarebbe libera di concentrarsi su quella che, ora come ora, è ancora la sua partita più importante: L’Ucraina.

Fabrizio Tralongo

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