La poesia di Anna Maria Bonfiglio nella silloge “Liturgia dei giorni” si presenta come un muro costruito rigorosamente a secco. Nella poesia n.1 della seconda sezione, la Poetessa scrive: “Nella sera / le parole sono pietre / la casa vuota grida / anime perdute e si contorce”. Ogni parola è una pietra, che viene accostata all’altra facendone combaciare i bordi, in modo da garantirne la commettitura. I muri a secco, che i contadini erigevano per realizzare i terrazzamenti, hanno la forza di contenere i terreni franosi, e lì dove la frana ineluttabilmente si determina, non provocano, sgretolandosi, l’aggravamento dei danni, perché sono costruiti in modo da non opporre resistenza alla forza d’urto: lasciano scivolare la terra assecondandola. Allo stesso modo, nelle liriche della poetessa si percepisce un suo farsi cava per contenere la vita, che viene accolta con quello spirito di accettazione tutto siciliano che non è rassegnazione, ma consapevolezza derivante da conoscenza, e che si traduce in saggezza: “ È vano ricondursi a scale cieche / a crediti insoluti”, asserisce nella poesia “Il passo breve”. Nella lirica “A ricomporre il cerchio” leggiamo: “Più triste sulla petraia il passo / dopo la canzone degli abbracci / e la parola ombra sul filo / dell’assennata verità”; e nella poesia “Oracoli”: “Sul verde tappeto lunare / danzano le sorelle della notte / ondeggiano sul muro / come le ombre nere del passato – / oracoli ammutiti / alle nostre richieste.” Anna Maria è in un’età in cui gli oracoli tacciono perché non hanno più nulla da svelare: non ci sono misteri, tutto ormai si è fatto chiaro pur essendo scuro, nel senso che l’ombrosità della vita viene riconosciuta come un dato acclarato. La luce non è che una “Fata Morgana falsa e illusoria / deride il sogno offusca la ragione.”, come scrive in “Fata Morgana”. A conclusione della lirica “Mattutino” leggiamo: “Poi ti oscurò la luce / e fu di nuovo giorno.” E a conclusione della poesia “Allo specchio” la Poetessa scrive: “Tu mi racconti il nero del futuro / ed il biancore del vissuto buono / io guardo allo specchio / e leggo vene di malinconia.” Nel saggio “In dialogo con la solitudine” lo psichiatra Eugenio Borgna scrive: “La malinconia, che non è la depressione, ci immerge in una solitudine nutrita di gentilezza e di sensibilità, di accoglienza e di nostalgia, di silenzio e di riflessione. Alla malinconia, alla solitudine che a essa si associa, alla fragilità e alla sofferenza che la nutrono, si accompagnano orizzonti di senso che ci invitano a scendere in noi stessi e nelle regioni profonde della nostra soggettività.” Questo bisogno di allontanarsi dal mondo allo scopo di scrutare dentro di sé, ponendosi in ascolto dei richiami dell’interiorità, era già presente nella silloge immediatamente precedente, intitolata “Di tanto vivere”: in essa, nella poesia “Un altro giorno” Bonfiglio scrive: “Anche stasera ho serrato gli scuri / ho lasciato fuori il cielo e le strade / le luci intermittenti del faro natalizio / e le finestre accese dei miei dirimpettai. / Quante sono le case sconosciute / tante le vie di questa solitudine / che scorre nelle vene incattivite. // […] Domani se mi sarà concesso un altro giorno / riaprirò gli scuri e rivedrò la vita passeggiare.” In “Liturgia dei giorni” il processo introspettivo è ancora più evoluto, e la poesia si presenta come il canto lirico dispiegato da un’anima piena di sassi che fanno da zavorra, impedendole di prendere il volo perdendo il senso della realtà, come leggiamo nella poesia “Come Virginia”: “Non in tasca – Virginia – / ma nell’anima i sassi.” Il poeta Charles Simic ne “Il mostro ama il suo labirinto” scrive: “Come mai certe espressioni della nostra soggettività, in poesia, appaiono al lettore meramente autoreferenziali o sentimentali, mentre altre, ugualmente personali, hanno un’eco universale? Forse perché esistono due tipi di poeti: quelli che invitano il lettore a sguazzare con loro nell’autocommiserazione e quelli che si limitano a rammentargli la comune condizione umana.” Alla seconda categoria di poeti appartiene indubbiamente Anna Maria, che, senza mai crogiolarsi nella malinconia che la pervade per “gli avvizzimenti” e per “gli inganni”, e nella nostalgia per i tempi andati che non torneranno, in modo lucido si apre al futuro, abbandonando le false illusioni che si coltivano nella giovane età, consapevole delle trappole e dei pericoli che minano il percorso di vita di ogni uomo, e proprio per questo capace di scansarle anche con gli occhi rivolti in alto. “L’anima innova / il rito quieto dell’attesa”, scrive. A proposito del riconoscimento dell’ingannevolezza dei sogni giovanili, nella poesia “Quegli anni settanta” leggiamo: “Quegli anni settanta in penombra / nella stanza tre metri per due / battendo sui tasti Olivetti / ritagli di vita e d’amore / col sogno di un cuore nel cielo / che entrasse di sguincio dai vetri / a posarsi sul petto / e lucciole e rondini / ancora a vibrare nell’aria. / Ma anche nel sogno lo schiavo / non cessa di essere schiavo.”; e nella poesia “Sugheri” scrive: “Si tinge allora l’orizzonte / di antiche non sopite nostalgie / e il vecchio tempo affonda negli abissi / col peso di remote fantasie.” Sulla consapevolezza della perigliosità della vita, consapevolezza non generativa di paura, ma della volontà di affrontare gli ostacoli e di superarli, nella seconda sezione della silloge, intitolata “A Palermo nessuno”, nella poesia n.5 leggiamo: “Dateci il silenzio del quieto / proseguire – piede dietro / piede – sul sentiero radente / i cigli dei costoni / Non abbiamo paura / sappiamo scansare le tagliole / anche con gli occhi in alto / verso il cielo”. La quotidianità, con il ripetersi dei suoi riti, con il susseguirsi ininterrotto del giorno e della notte, e l’avvicendarsi della luna e del sole nel cielo, si fa liturgia: “Come pesa la liturgia dei giorni / ora che abbisognano più fiaccole / a diradare le ombre / che insediano la luce del mattino.” Una liturgia rigorosamente laica, in cui si fa spazio sì al divino e al trascendente, ma non in modo preponderante. Nella bellissima poesia “Notte dell’ascensione”, che chiude la prima sezione della silloge, leggiamo: “Ecco che nella notte dell’Ascesa / mia madre mette i petali di rosa / in acqua nel catino sul balcone / sì che domani se ne lavi gli occhi / per devozione e per riconoscenza. / Io che non ho più rose a benedire / a macerare metterò le spine.” La poetessa lascia capire al lettore di credere poco alla possibilità di miracoli che stravolgano il corso delle cose: tutto si dispiega lungo un ineludibile percorso spinoso, oscuro nelle sue ragioni, ma percepito nella sua ineluttabilità: “Non so per quale colpa / offerta al sacrificio / pago il pedaggio: / un serto fra i capelli / e abbandonarsi all’acqua / galleggiare.”, scrive nella poesia “Ofelia”. Nella poesia n.3, contenuta sempre nella seconda sezione della silloge, leggiamo: “Cammineremo palpeggiando i ​/muri/verso una stagione sconosciuta – / maschere denudate / in attesa di nuovi vestimenti”. Col tempo le maschere si scollano dal viso, o meglio si è più avvezzi a scorgere la falsità negli altri: in “Doppio volto” leggiamo: “Ancora sei entrato nel mio sonno / col doppio volto del divino Giano. / Sfuggente e ambiguo / tra la folla dei tanti tuoi sodali / mi hai rinnegato / ancora prima che cantasse il gallo.” Il muro a secco che costruisce la Poetessa con le sue parole scarne e petrose, a contenere il dolore e la disillusione che franano rovinose man mano che ci si inoltra nella tarda età della vita, non conosce l’umidificazione del sentimentalismo e dell’incanto illusorio. L’amore viene descritto in tutta la sua fuggevolezza: “Nel solitario letto / l’amore a stento alimentato / è magro fuoco – / cenere di sangue e di memoria”; in “L’altra vita” Anna Maria scrive: “Nel lungo corridoio della sera / rimangono due ombre / strette nell’arco chiuso dell’abbraccio. / Sarà notte fra poco / e i loro passi andranno ad altre vie / a ridirsi la vita d’ogni giorno.” L’Altro viene visto nella sua irraggiungibilità: nella poesia “Altro da te”, contenuta nella terza sezione, leggiamo: “Altro da te / nel cerchio della solitudine / inseguire. / Da capo a capo / – anima braccata – / sfuggire la volontà / delle catene. / Finalmente accecare / l’occhio perverso dell’attesa.” Viene in mente quanto asserisce Charles Simic, ne “Il mostro ama il suo labirinto”: “Scriviamo perché siamo stati toccati dalla nostalgia o dalla disperazione di poter mai toccare l’Altro.” Nella silloge sono contenute molteplici riflessioni sul tempo, su cui Bonfiglio posa lo sguardo di chi non si aspetta sorprese: “Ora il tempo è un lungo serpente / che non incanta.”, e “Il giorno che s’annuncia / porta il sapore / del tempo che ci lascia.” E in una vita che si presenta come un “dedalo quotidiano” di “ramaglie”, che spiccano da “fitte radici poste in fondo al cuore”, “La voce dei poeti ha suono lieve / rimbalza fra le pietre e si nasconde”. La poesia, per Anna Maria Bonfiglio, è l’unico lenimento dello spirito, “rara / e insostituibile risorsa / cura e conforto al male della vita”; “divinità taumaturga / inferno e pace / al tormento dell’anima sgualcita”. Il viaggio che la Poetessa compie all’interno di sé nella silloge “Liturgia dei giorni”, si snoda in tre tappe rappresentate da tre sezioni, ossia “Spartenze”, “A Palermo nessuno” e “Oracoli”; si rivela essere un cammino all’interno della condizione umana, e la Sicilia, “terra di proterva solitudine”, si fa metafora di universalità, come già sosteneva Sciascia. E ha ragione Simic quando scrive nel suo taccuino: “Se le poesie fossero l’espressione dell’identità etnica rimarrebbero locali, ma in tutte le culture sono scritte da individui, e questo le rende universali”.