di Ornella Mallo 10/5/2023

Giovanni Raboni, nel suo “Autoritratto” del 2003, a proposito della poesia civile scrive: « Io ho affrontato temi civili semplicemente perché ne sentivo l’urgenza, ne sentivo l’urgenza intima: o per un moto di indignazione, o di preoccupazione, o di sgomento; quindi le ritengo, appunto, poesie altrettanto private, se non più private delle più intime. » Il riferimento a Raboni non è affatto casuale: è lo stesso Bartolomeo Bellanova a scegliere i versi del celebre poeta milanese come esergo della “Prima sezione” della sua ultima raccolta poetica, intitolata “Perdite”. E cita una poesia particolarmente cara a Raboni, attinta dalla sezione “Stanze per la musica di Adriano Guarneri”, facente parte della raccolta “Quare tristis”: “Così a volte succede che nel buio / si insanguini un volto, una mano / ci implori – così c’è / chi ignora e chi invece ha nel cuore / la comunione dei vivi e dei morti”. Questo stralcio è riportato dallo stesso Raboni nell’”Autoritratto” del 2003 come emblema della sua visione della morte: « non faccio più molta distinzione fra i vivi e morti, […] non li sento […] più lontani di quando erano vivi, e quindi mi si è, appunto, fatta sempre più essenziale, sempre più cara l’idea che esiste non so se un aldilà o un aldiquà o un dentro-di-noi in cui i morti continuano a vivere con noi. » Il tema della morte è pure trattato da Bellanova nei suoi versi, ma in modo meno intimo e più sociale: nella poesia “Sentieri” leggiamo: “Chi non c’è più si dice l’abbiano / buttato nel cassone del camion / giù in discesa verso l’inceneritore.”; e nella poesia “Il tribunale” l’Autore scrive: “In radunate sediziose / trascorre la vita, / cospirando di nascosto / a bassa voce / contro il potere gelido del camposanto. // […] Sulle fototessere dei tombini, / sugli epitaffi scarnificati / la bora del tempo / fischia la legge uguale per tutti”. Possiamo considerare “Poesia civile”, nel senso dato al termine da Raboni, la raccolta poetica “Perdite”, in quanto composta da versi che scaturiscono dalla necessità, fortemente avvertita dal Poeta, di destare la collettività dal torpore mediatico in cui ristagna. Bellanova, già nel “Prologo”, pone il lettore davanti all’urgenza di ribellarsi al bombardamento, perpetrato dai social e dai mezzi di informazione, di parole mendaci e fuorvianti, che lo allontanano dalla Verità, e dunque da sé stesso. Il Poeta si serve di un linguaggio urbano, attinto dalla metropoli che fa da sfondo ai suoi versi. E parla in modo diretto, im-mediato, cioè senza interporre alcuna mediazione o schermo tra contenente e contenuto. Leggiamo infatti: “È un inganno quotidiano, / un furto con destrezza / della nostra polpa più profonda, / questo incessante martellare del mondo / sulla testa delle parole- luce / per fare posto / alle parole infestanti, / roditori di vite / sfasciume.” Per questo motivo, possiamo senz’altro definire Bartolomeo Bellanova un “ contemporaneo ” nell’accezione che Giorgio Agamben, in “Nudità”, dà a questo termine: “Percepire nel buio questa luce che cerca di raggiungerci e non può farlo, questo significa essere contemporanei. Per questo i contemporanei sono rari. E per questo essere contemporanei è, innanzitutto, una questione di coraggio: perché significa essere capaci non solo di tenere fisso lo sguardo nel buio dell’epoca, ma anche di percepire in quel buio una luce, diretta verso di noi, che si allontana infinitamente da noi.” Riportare allora la luce al centro di questa epoca oscura, illuminandola, è il senso della poetica di Bellanova, che impietosamente, con l’algore del chirurgo, denuncia i mali della società odierna, cominciando dall’indifferenza verso l’Altro da sé, che sia la natura o un essere umano: “Dobbiamo […] smettere di sputare napalm / e fare terra bruciata”, ammonisce. A questo scopo utilizza l’immagine di uno scoiattolo brutalmente arrotato da “una jeep lanciata in corsa nella discesa”, chiara metafora del destino di ciascuno di noi: scrive infatti: “La tua anima si arrampicherà / sulle cortecce dei pini. / Guarderà da lassù / […] il nostro decomporci un po’ per giorno, / dimenticandoci se siamo vivi.” L’indifferenza è strettamente connessa con la mancanza di attenzione e con la superficialità, scaturigini delle false informazioni che, determinando una sorta di cecità collettiva, agevolano la corsa inesorabile verso il baratro: “Ve ne state andando da questa terra desolata / di rocce rotolanti sgretolate / da virus, varianti e fake news.”, leggiamo nella poesia “In volo”. Il riferimento alla recente pandemia è evidente. L’Uomo di oggi non ha fatto tesoro dell’esperienza dell’Olocausto: viene deportato e rinchiuso in nuovi campi di sterminio, quelli creati dall’omologazione della massa, manipolata e asservita alle leggi dettate dai poteri forti, che perseguono il fine del proprio arricchimento, non tenendo conto dei bisogni dei più deboli. Bellanova descrive una società spersonalizzata, che demanda ai social e alla televisione la facoltà di pensare: “Chissà se questo vento turchese / a folate e a raffiche / spazzerà via la morte dai teleschermi”, si chiede in “Domande inutili”. Nel “Prologo” leggiamo: “Nei vagoni piombati / delle detenzioni di massa / la vita s’affanna / e i pensieri si spengono / in piedi come i cavalli.” E nella poesia “Lager”: “Tremo come fuscello / percosso da mille canne di bambù / che ringhiano nello stomaco. / Le ossa scosse da comandi bestiali, / abbaiare di crauti in decomposizione. // […] Buio. // Gli aguzzini applicano / in modo scientifico / i principi dell’economia circolare.” È uno scenario apocalittico quello descritto da Bellanova, tanto spaventoso quanto reale. La sua voce tuona spietata a tratti, oppure mordace. Ricorda il Montale sarcastico della poesia “L’allevamento”, contenuta nella raccolta “Altri versi”. Scriveva Montale: “Siamo stati allevati come polli / nel Forward Institute”; il controcanto di Bellanova nella poesia “Allevamento intensivo”, ispirata da una dichiarazione del primo ministro inglese Boris Johnson del 17 giugno del 2022: “Il primo ministro assicura che occorrono / […] centoventi giorni per produrre / diecimila soldati nuovi. /[…] L’umano è deflagrato secco / nelle schegge di un missile // La polvere di ciò che resta / è uno sputo in faccia al cielo.” Si scorgono echi montaliani anche nella visione assolutamente laica della società odierna: è un mondo effimero, in cui “Ogni forma è provvisoria / sotto lo scroscio della luce”; senza Dio. Vi si “arriva senza invito / spinti alle spalle dalla bora del caso, / mulinelli di esistenze / coi telefoni in mano, / gli stessi racconti, gli stessi parenti”; per le strade cammina “il carro di Nihil”, che oltrepassa il Poeta cigolando; “Un moscone nero al mio orecchio / suggerisce domande imprescindibili, / ma Lui non dà risposte”, scrive nella poesia “Trinità”. E ​all’Angelo di Dio grida supplicandolo: “Angelo di Dio, / sconfitta alata / piccolo nembo sordomuto / dissolto all’irruzione dell’alba: / parla! / parla!” Presenti anche echi pasoliniani: “La scavatrice ha scavato fino al fondo / tutto il sangue e la ruggine della solitudine / e sta nascosta in qualche baracca / col tetto di lamiera e amianto / dove i ragazzini si fanno di sangue e vodka.”, scrive nella poesia “Tiburtina binario / Est”, in cui rende omaggio al poeta romano che nell’impegno civile ha trovato il senso della propria esistenza. Scrive infatti: ”Riecheggia di Pier Paolo il vuoto”. La raccolta “Perdite” si articola in tre sezioni senza titolo, che si distinguono tra loro in base all’esergo; e se la prima sezione si apre con Raboni, la seconda è introdotta da una citazione di Eliot, autore amato e tradotto da Montale: “Presso le acque del Lemano / mi sedetti e piansi.[…]” Essa annuncia versi carichi di dolore per la constatazione della propria condizione personale nella società di oggi: “Sono un irrisolto rocchetto / di filo da cucito / obbediente al pollice e all’indice //[…] Il cilindro di plastica col buco / sente già il freddo della lama / avvicinarsi all’anima”. Ma la terza sezione apre alla speranza con una citazione di Derek Walcott, che individua nel “silenzio dell’amore” la fonte da cui possono sgorgare le “parole- luce” che salveranno il mondo: “Il silenzio dell’amore sepolto più in fondo / È il vero silenzio, […] Ed è benedetto / nel modo più profondo della perdita / È benedetto, è benedetto”. Ed ecco che si snocciolano una dietro l’altra, come i grani di un rosario laico, le poesie d’amore di Bellanova, che mostrano il segno dei tempi di oggi, anche se nella poesia “Dormiveglia” è citato volutamente il Montale di “Xenia”. Nell’ultima poesia della raccolta, “Falso indizio”, leggiamo: “Quando tra migliaia di anni / silenziosi robot asessuati / scaveranno sotto a decine di metri / di fogliame e liquame, / […] ci troveranno abbracciati, / marmorizzati fossili a spirale, […] e attribuiranno all’eccesso d’amore / la causa della nostra estinzione.” Una società robotizzata disconoscerà l’amore se non si corre ai ripari, ammonisce il Poeta. E alla sua amata scrive, nella poesia “Volume”: “Quando penserai a un futuro / di falò di pianti, / quando ogni alba ti sembrerà / un marmo in faccia dopo l’insonnia, / tu aggrappati alla mia voce / appesa come un gancio / in mezzo ai tuoi seni”. Un richiamo all’amore come unica forza capace di illuminare il mondo spegnendo il suono delle “parole-buio”. Molto bella la poesia di Bellanova, ricca di contenuti e di colori: il giallo dei calicanti, delle primule e delle foglie morte, il rosso delle begonie, del sangue e degli occhi umidi di pianto, il turchese del vento arricchiscono di armonia cromatica i suoi versi, che si servono di disallineamenti e di cesure per esaltare il loro senso eutrofico, che contrasta con la “distrofia di senso” dei tempi odierni.

(Foto di Aldo Tomaino)