di Ornella Mallo 22/11/ 2022

“Come topi, uomini uscivano di nascosto, cercando di fuggire alla luce fioca dei lampioni della strada che ospitava il piccolo bordello di via dei Mulini, per fare ritorno alle proprie vite.”

Giankarim De Caro, nel romanzo “Malavita”, getta sul “topo” che è nell’uomo una luce molto più
intensa di quella flebile dei lampioni che rischiarano appena i quartieri degradati in cui è ambientata
la storia. Questa immagine ricorre in altre pagine del romanzo: “da sotto l’abito appallottolato uscì
un grosso ratto con gli occhi iniettati di sangue che le si gettò addosso”; “Guarda chi si rivede,
morto il gatto i topi ballano”.
Il topo è l’inumano che è nell’uomo. “Anche gli uomini secernono l’inumano. In certe ore di
lucidità, l’aspetto inumano dei loro gesti, la loro pantomima priva di senso rendono stupido tutto ciò
che li circonda.”, scriveva Camus ne “Il mito di Sisifo”.
L’inumano, che viene dipinto impietosamente dall’autore nella sua mostruosità e nei suoi tratti
grotteschi, si correla allo stato di degrado sociale ed economico in cui versano le protagoniste del
racconto, e la povertà viene additata come la causa principale del loro destino di prostitute, costrette
per fame ad accogliere non solo miserabili, ma anche uomini altolocati. Con questo, l’autore sta a
sottolineare come l’esistenza del “topo” nell’uomo prescinda dalle condizioni sociali, culturali ed
economiche in cui vive. È connaturato, anche se viene abilmente nascosto sotto apparenze
perbenistiche e ipocrite. Nel romanzo, il “topo” si nasconde sotto gli abiti di religiosi, le cui anime
dovrebbero anelare invece alla luce autentica di cui parla Cristo nel Vangelo, alla pulizia
dell’interno del bicchiere, e non fermarsi alla cura spasmodica della lucentezza dell’esterno.
Ecco quindi suore spietate che lasciano morire Pipina, una delle sorelle protagoniste del racconto,
sola nel sanatorio, o Don Gaetano che approfitta di Grazia per sfogare le proprie concupiscenze,
abbandonandola al suo destino di prostituta senza redimerla, anzi accrescendone la fama.
Un mondo senza Dio è quello che descrive Giankarim De Caro, in cui alcuni personaggi, soprattutto
maschili, si compiacciono del male che arrecano agli altri e se ne nutrono, senza alcuna possibilità
di redenzione.
Il tema della miseria, che spesso per le donne si traduce in una condanna alla prostituzione, è stato
affrontato anche da Léon Bloy ne “La donna povera”. Leggendo “Malavita”, mi è venuto in mente
questo grande autore della letteratura francese, fondamentale per la conversione di Jacques
Maritain, menzionato anche da papa Francesco. Bloy, nel suo romanzo, denuncia le difficoltà che
incontravano le donne dei ceti degradati nello scampare a un atroce destino, e come la povertà
spesso porti gli uomini a compiere le più efferate azioni pur di procurarsi i mezzi per vivere. Ma se
per l’autore francese il mistero della povertà si riconduce a un disegno divino sconosciuto, secondo
il quale “Senza Barabba niente redenzione: Dio non sarebbe stato degno di creare il mondo se
avesse dimenticato nel nulla l’immensa marmaglia che un giorno doveva crocifiggerlo”, in De Caro
tutto viene visto in una dimensione assolutamente laica, e il mistero della povertà e delle
sperequazioni sociali viene demandato all’uomo e accolto come un dato di fatto.
Il sacro fa capolino nella narrazione attraverso l’immagine delle campane delle chiese, che col loro
“suono ridondante” sono “testimoni della fragilità degli uomini, […] ignare che nei mesi a seguire,
avrebbero pagato il prezzo della follia di quelle strane creature, sempre in movimento, che tanto le
divertivano con l’inutilità della loro precaria esistenza.”
Protagoniste dunque del romanzo sono tre sorelle: Provvidenza, Pipina e Grazia, figlie di Lucia,
donna condannata dalla povertà e dalla sua stessa bellezza a un destino di prostituzione: oggetto del
desiderio del conte Manfredi, costui dapprima la vuole come amante, e poi l’abbandona alle grinfie
del marito Silvestro, che sperpera i soldi incassati grazie al meretricio della moglie, nell’acquisto di
vini da consumare nelle taverne. Lucia non riesce ad affrancarsi dalla sorte che le piove addosso:
impazzita a causa della sifilide«, legata a un letto, è condannata a urlare giorno e notte “buttana
buttana buttana”, simbolo della prigione metaforica in cui è relegata da circostanze indipendenti
dalla sua volontà. Lo stesso atroce destino ricade su tutte e tre le figlie.
Si salva soltanto Grazia, che sopravvive alla morte di Provvidenza e di Pipina, e riesce a crescere i
suoi tre figli, Pino, Saverio e Lucia, avuti da padri diversi, nonostante la fame e le vicissitudini
patite durante la seconda guerra mondiale, affrancandosi pure dalla prostituzione in virtù della sua
abilità e della sua forza d’animo. Investe fruttuosamente i suoi guadagni e apre un bar nel cuore di
Palermo.
Fanno da contorno diverse figure, maschili e femminili, di cui con pochi tratti salienti lo scrittore fa ritratti psicologici nitidi e precisi. La scrittura di De Caro, infatti, non è mai barocca né
ridondante, ma scarna ed essenziale. Qua e là c’è un intercalare di espressioni del dialetto
palermitano, proprio per accentuare l’aderenza alla realtà della narrazione.
Senza che ci sia un sovrappiù di parole, essa scorre fluida, e in più tratti tocca direttamente il cuore
del lettore, sollecitando di volta in volta indignazione per le efferatezze, o commozione quando si
sofferma su quel residuo di umanità che ogni tanto emerge, soprattutto nelle protagoniste del
racconto, viste come madri che si prendono cura dei figli nonostante le vicissitudini.
È l’istinto materno di Lucia ad emergere nella scena in cui l’autore descrive il parto della
terzogenita Grazia, avvenuto su un bugliolo, in condizioni miserabili: “Sentendo qualcosa muoversi,
Lucia si alzò spaventata e si ritrovò ancorata al secchio dal cordone ombelicale. Capì subito cosa
fosse successo, raccolse la creatura, l’abbracciò provandone “cassandrica” pena per la vita che
l’avrebbe attesa, la baciò teneramente sul viso imbrattato di feci.” Poche pennellate, ma incisive.
Materna è Provvidenza nei riguardi della sorella Pipina, che cerca di salvare portandola in un
sanatorio. Per vendicarne la morte, arriva ad uccidere Silvestro, sparendo nel nulla a sua volta.
Materno il pianto di Grazia quando sente al telefono il gelo del figlio Saverio, scappato col padre in
America, non accettando il mestiere che ai tempi esercitava la madre: «”Ti voglio bene Saverio, e
quello che ho fatto, l’ho fatto per te e tuo fratello”. E rimase a piangere ascoltando il silenzio
all’altro capo del telefono.»
Le figure maschili sono invece prevalentemente descritte nella loro scialba meschinità. Si salva il
conte Saverio, che si innamora di Grazia e la vuole sottrarre alla malavita, e per questo viene ucciso
barbaramente da Minico, lo sfruttatore con cui la donna conviveva. Saverio non è però una figura
totalmente positiva, perché profitta di Provvidenza e Pipina sorvolando sulla probabilità che
quest’ultima possa essere sua figlia.
“Malavita” è un romanzo storico che ricostruisce fedelmente la Palermo dei primi del Novecento
fino alla Seconda Guerra Mondiale e al dopoguerra. De Caro si sofferma sulle barbarie del secondo
conflitto mondiale, sulle devastazioni perpetrate dai bombardamenti degli alleati, che sbarcano
spacciandosi per salvatori pur essendo stati carnefici: «Le voci delle atrocità commesse dagli alleati
tenevano la città in ansia per il loro arrivo, infatti nei giorni successivi allo sbarco del 10 luglio del
1943, gli Alleati si mostrarono ben altro che “liberatori”, scrivendo una pagina vergognosa e per
questo occultata dalla storia.» Struggente la descrizione del bombardamento in cui perde la vita una
prostituta amica di Grazia, che viene rinvenuta nuda, abbracciata a un giovane cliente; e quello in
cui muoiono due bambini amichetti di Saverio che, turbato, si chiude in sé stesso.
Indaga lo sguardo attento di De Caro sulla psicologia umana, e sulla cattiveria che è insita in
ognuno, e che si slatentizza soprattutto in ambienti degradati, ma non solo; sulle ambivalenze e
sull’irrisolto che si deposita nel fondo dei rapporti umani, e che fa sì che anche nella relazione con i
figli si determino incomprensioni che si ergono come muri, separandoli. Emblematico il rapporto di
Grazia non solo con Saverio, che si allontana, ma anche con Lucia, che,  invidiosa della bellezza della madre, nei suoi confronti prova astio, sentendone il dolore per la lontananza del fratello. La donna non avrà nei confronti della figlia la lungimiranza di farle concludere gli studi, e la relegherà tra le mura del bar.
Conclude il romanzo  Adele, che ha condiviso con Grazia il destino di prostituta: ormai anziana, seduta sotto un’albero, viene colta dallo scrittore mentre entra nella macchina di un cliente. Le fanno da contraltare dei bambini che stanno per entrare nella chiesa di Santa Lucia, a sottolineare come la vita nel suo dinamismo sia sempre uguale a sé stessa: un coacervo inestricabile di luci e ombre, di sacro e
profano, di gioventù e vecchiaia, di castità e lussuria. E lo scrittore non ha che un compito: quello di
mettere al centro delle sue narrazioni la vita così com’è, senza indulgere in ipocrisie false e
retoriche. Simbolo dell’immutabilità della condizione umana è lo scirocco che, nella scena iniziale,
soffiando zittisce grida e parole, che si perdono nell’aria annoiata.
Con “Malavita” la letteratura siciliana si dimostra veicolo dei caratteri universali dell’essere umano,
che si affermano uguali a sé stessi a prescindere dal contesto geografico e storico in cui egli vive.
Così da potere estendere anche a Giankarim De Caro quanto afferma a proposito della scrittura
Agota Kristof, scrittrice ungherese: “Un libro, per triste che sia, non può essere triste come una vita.
La vita è di un’inutilità totale, è non-senso, aberrazione, sofferenza infinita, invenzione di un Non-
Dio di una malvagità che supera l’immaginazione: le parole che definiscono i sentimenti sono molto
vaghe, è meglio evitare il loro impiego e attenersi alla descrizione fedele degli oggetti, degli esseri
umani e di se stessi, vale a dire alla descrizione fedele dei fatti”.
Ornella Mallo

desiderio del conte Manfredi, costui dapprima la vuole come amante, e poi l’abbandona alle grinfie del marito Silvestro, che sperpera i soldi incassati grazie al meretricio della moglie, nell’acquisto di vini da consumare nelle taverne. Lucia non riesce ad affrancarsi dalla sorte che le piove addosso: impazzita a causa della sifilide«, legata a un letto, è condannata a urlare giorno e notte “buttana buttana buttana”, simbolo della prigione metaforica in cui è relegata da circostanze indipendenti dalla sua volontà. Lo stesso atroce destino ricade su tutte e tre le figlie. Si salva soltanto Grazia, che sopravvive alla morte di Provvidenza e di Pipina, e riesce a crescere i suoi tre figli, Pino, Saverio e Lucia, avuti da padri diversi, nonostante la fame e le vicissitudini patite durante la seconda guerra mondiale, affrancandosi pure dalla prostituzione in virtù della sua abilità e della sua forza d’animo. Investe fruttuosamente i suoi guadagni e apre un bar nel cuore di Palermo. Fanno da contorno diverse figure, maschili e femminili, di cui con pochi tratti salienti lo scrittore fa dei ritratti psicologici nitidi e precisi. La scrittura di De Caro, infatti, non è mai barocca né ridondante, ma scarna ed essenziale. Qua e là c’è un intercalare di espressioni del dialetto palermitano, proprio per accentuare il carattere veristico della narrazione. Senza che ci sia un sovrappiù di parole, essa scorre fluida, e in più tratti tocca direttamente il cuore del lettore, sollecitando di volta in volta indignazione per le efferatezze, o commozione quando si sofferma su quel residuo di umanità che ogni tanto emerge, soprattutto nelle protagoniste del racconto, viste come madri che si prendono cura dei figli nonostante le vicissitudini. È l’istinto materno di Lucia ad emergere nella scena in cui l’autore descrive il parto della terzogenita Grazia, avvenuto su un bugliolo, in condizioni miserabili: “Sentendo qualcosa muoversi, Lucia si alzò spaventata e si ritrovò ancorata al secchio dal cordone ombelicale. Capì subito cosa fosse successo, raccolse la creatura, l’abbracciò provandone “cassandrica” pena per la vita che l’avrebbe attesa, la baciò teneramente sul viso imbrattato di feci.” Poche pennellate, ma incisive. Materna è Provvidenza nei riguardi della sorella Pipina, che cerca di salvare portandola in un sanatorio. Per vendicarne la morte, arriva ad uccidere Silvestro, sparendo nel nulla a sua volta. Materno il pianto di Grazia quando sente al telefono il gelo del figlio Saverio, scappato col padre in America, non accettando il mestiere che ai tempi esercitava la madre: «”Ti voglio bene Saverio, e quello che ho fatto, l’ho fatto per te e tuo fratello”. E rimase a piangere ascoltando il silenzio all’altro capo del telefono.» Le figure maschili sono invece prevalentemente descritte nella loro scialba meschinità. Si salva il conte Saverio, che si innamora di Grazia e la vuole sottrarre alla malavita, e per questo viene ucciso barbaramente da Minico, lo sfruttatore con cui la donna conviveva. Saverio non è però una figura totalmente positiva, perché profitta di Provvidenza e Pipina sorvolando sulla probabilità che quest’ultima possa essere sua figlia. “Malavita” è un romanzo storico che ricostruisce fedelmente la Palermo dei primi del Novecento fino alla Seconda Guerra Mondiale e al dopoguerra. De Caro si sofferma sulle barbarie del secondo conflitto mondiale, sulle devastazioni perpetrate dai bombardamenti degli alleati, che sbarcano spacciandosi per salvatori pur essendo stati carnefici: «Le voci delle atrocità commesse dagli alleati tenevano la città in ansia per il loro arrivo, infatti nei giorni successivi allo sbarco del 10 luglio del 1943, gli Alleati si mostrarono ben altro che “liberatori”, scrivendo una pagina vergognosa e per questo occultata dalla storia.» Struggente la descrizione del bombardamento in cui perde la vita una prostituta amica di Grazia, che viene rinvenuta nuda, abbracciata a un giovane cliente; e quello in ​cui muoiono due bambini amichetti di Saverio che, turbato, si chiude in sé stesso. Indaga lo sguardo attento di De Caro sulla psicologia umana, e sulla cattiveria che è insita in ognuno, e che si slatentizza soprattutto in ambienti degradati, ma non solo; sulle ambivalenze e sull’irrisolto che si deposita nel fondo dei rapporti umani, e che fa sì che anche nella relazione con i figli si determino incomprensioni che si ergono come muri, separandoli. Emblematico il rapporto di Grazia non solo con Saverio, che si allontana, ma anche con Lucia, che si rivela invidiosa della bellezza della madre, e per questo astiosa. Conclude il romanzo una figura enigmatica: quella di Adele, anziana prostituta, seduta sotto un albero, colta dallo scrittore mentre entra nella macchina di un cliente. Le fanno da contraltare dei bambini che stanno per entrare nella chiesa di Santa Lucia, a sottolineare come la vita nel suo dinamismo sia sempre uguale a sé stessa: un coacervo inestricabile di luci e ombre, di sacro e profano, di gioventù e vecchiaia, di castità e lussuria. E lo scrittore non ha che un compito: quello di mettere al centro delle sue narrazioni la vita così com’è, senza indulgere in ipocrisie false e retoriche. Simbolo dell’immutabilità della condizione umana è lo scirocco che, nella scena iniziale, soffiando zittisce grida e parole, che si perdono nell’aria annoiata. Con “Malavita” la letteratura siciliana si dimostra veicolo dei caratteri universali dell’essere umano, che si affermano uguali a sé stessi a prescindere dal contesto geografico e storico in cui egli vive. Così da potere estendere anche a Giankarim De Caro quanto afferma a proposito della scrittura Agota Kristof, scrittrice ungherese: “Un libro, per triste che sia, non può essere triste come una vita. La vita è di un’inutilità totale, è non-senso, aberrazione, sofferenza infinita, invenzione di un Non- Dio di una malvagità che supera l’immaginazione: le parole che definiscono i sentimenti sono molto vaghe, è meglio evitare il loro impiego e attenersi alla descrizione fedele degli oggetti, degli esseri umani e di se stessi, vale a dire alla descrizione fedele dei fatti”.