Xenos: straniero, estraneo, ospite,
anche se il mio paese ti dà la caccia,
benvenuto a casa mia.
I miei amici ti difenderanno in tribunale,
ma poco si potrà fare
per la memoria ustionata delle dita
e il tuo cuore di frontiera.
Fino a quando il DNA non ti riporterà
alla città ferita, ai parenti morti
quella porta rimarrà aperta.
Resta fuori, se non credi a queste parole,
oppure vieni, anche se per poco, dentro.
Ingrid de Kok

Xenia è il termine che i greci adoperavano per esprimere il concetto di ospitalità, di grande rilievo
nella loro cultura: l’uomo greco aveva il dovere di accogliere chi chiedeva riparo, di offrire doni
all’ospite.
Non è un caso che in una civiltà illuminata come quella greca, si avesse questo sentimento di
rispetto per chi arrivava da altri paesi: è sicuramente un gesto di intelligenza l’accoglimento,
l’apertura delle braccia verso chi è un uomo come te, senza pregiudizi fondati sul colore della pelle,
sullo status sociale, sulla ricchezza.
E’ il riconoscimento del valore dell’uguaglianza tra gli uomini.
Ed è del sentimento della xenia, dell’amore verso l’ospite, che è pervasa la bellissima poesia di
Ingrid De Kok, tratta dalla raccolta intitolata “Other signs” (Kwela Book, 2011).
Una poesia senza titolo, che si apre con questo verso: “Xenos: straniero, estraneo, ospite, anche se il
mio paese ti dà la caccia, benvenuto a casa mia.”
Un invito, dunque, rivolto con una mano aperta, pronta ad accogliere la mano dell’altro: un invito
verso l’uomo che giunge dall’oltre frontiera. Un uomo avversato dalle autorità, visto come un
nemico.
E un benvenuto che suona come una voce fuori dal coro, in un’epoca come la nostra, in cui torna a
dilagare il razzismo, nonostante le mille lotte che sono state compiute in passato contro l’apartheid,
contro la discriminazione razziale.
Un benvenuto che rivolge una donna che conosce bene queste tematiche, essendo nata in Romania,
nel 1951, e trasferita quando aveva dodici anni a Johannesburg, per poi migrare in Canada e tornare
in Sudafrica nel 1983, dove tuttora dirige un programma di educazione per adulti presso l’università
di Cape Town. Una donna impegnata nella lotta per la difesa dei diritti umani. Lotta difficile, oggi,
in un mondo in cui dilaga, al contrario, un atteggiamento di chiusura verso lo straniero, soprattutto
in Europa, meta di sbarco prediletta dai profughi provenienti dall’Africa.
“Haraga”, si chiama la rete social, nata in Algeria, che incita all’immigrazione verso l’Italia.
Viene citata dalla De Kok, in un’altra poesia, in cui si schiera a tutela di questi indifesi.
Interessante il giudizio di Flore Murard-Yovanovitch: “Di fronte a profughi e persone in
movimento, l’Europa si trasforma in una mostruosa macchina militare-burocratica per respingerli,
per fermare quelli che migrano alla ricerca di uguaglianza. In una pulsione senza precedenti dalla
Seconda Guerra Mondiale, l’Europa sceglie la violenza come politica e decide di spostare la sua
Frontiera più a Sud, in Africa, trasformandosi in un dispositivo per bloccare e per deportare chi ​
tenta di arrivare – l’Europa si fa muraglia di eserciti e poliziotti, di campi e cemento, di leggi e
persecuzioni.
Il passaggio storico è dalla xenofobia a un’ideologia strutturata e delirante: il fascismo della
frontiera.
Il passaggio strategico: la guerra dichiarata ai migranti.
Il risultato? L’abisso o l’orrore in corso, l’eliminazione di massa dell’altro.
Orrore, perché le parole mancano per nominare l’innominabile che è fatto anche della nostra
assenza e anestesia”.
E Bergoglio: ”Xenofobia: state attenti, perché il fenomeno culturale mondiale, diciamo almeno
europeo, dei populismi cresce seminando paura”.
Non è assente, la poetessa Ingrid de Kok. E la sua è una poesia del “Fare”, da Poiein, che in greco
vuol dire appunto fare, creare, generare.
Quindi una poesia che si fa strumento di denuncia contro tutte le storture della nostra civiltà.
Come lo era alle origini: la grande poesia epica in passato formò la coscienza morale ellenica con le
opere di Omero, Esiodo, Eschilo e Sofocle.
Non canto solipsistico di un poeta compiaciuto della propria chiusura in se stesso, ma canto di un
poeta immerso nell’umanità, e nella civiltà dei suoi tempi. Un poeta che richiama ai valori della
ragione. Da cui inevitabilmente scaturisce, come corollario, il rispetto per l’Altro. Perché l’Altro
non è che il Poeta stesso.
Prosegue dunque la De Kok, scrivendo: “I miei amici ti difenderanno in tribunale, ma poco si potrà
fare per la memoria ustionata delle dita e il tuo cuore di frontiera”.
“Memoria ustionata delle dita”: nella poesia che fa riferimento all’Haraga, la De Kok scrive che lo
straniero “ha cancellato la pelle dei polpastrelli che hanno toccato madre, amante, e la sua terra
quando era più dolce, nella cera bollente”. E scrive :”Solo impronte e storie rimaste a tracciare i
passi del tuo addio al di là dell’altopiano, del bassopiano fino alla barca che fa acqua, al container
asfissiante, al campo di filo spinato, fino al tuo arrivo qui, dove vogliono a ogni costo sapere chi eri
prima per rispedirti indietro.”
Il dramma degli immigrati clandestini, che fuggono da situazioni di disagio e di orrore, per andare
incontro ad un altro orrore. Quello del rifiuto perpetrato nei suoi confronti, e del respingimento
disumano.
E conclude: “Fino a quando il DNA non ti riporterà alla città ferita, ai parenti morti, questa porta
rimarrà aperta. Resta fuori, se non credi a queste parole, oppure vieni, anche se per poco, dentro”.
Porte aperte, dunque, allo straniero che arriva da lontano. E rispetto per chi, scrive in un’altra
poesia, “ha sepolto il proprio nome , prima del passaggio, per diventare tabula rasa, nemico senza
stato di quanti hanno labbra e dita leggibili”.
Ornella Mallo
(Fonte immagine: web)