Intervento di Ornella Mallo al convegno sulla poesia intitolato la poesia: quel poco che riempie il vuoto, organizzato dall’associzione Faro Citizen of Europe presso la biblioteca di Villa Trabia – palermo 29/05/2023
di Ornella Mallo
Il titolo del mio intervento rimanda a una caratteristica essenziale della poesia: l’economia della parola. Scriveva Alejandra Pizarnik: «Continuano a dirci, da tempi immemorabili, che la poesia è un mistero. Ciò nonostante, la riconosciamo: sappiamo dove si trova.» Da cosa riconosciamo una poesia? In prima battuta, dalla sua musicalità. Ciò trova conferma nelle sue origini: la comunicazione sonora che ai tempi dell’Homo Erectus divenne prevalente su quella visiva e gestuale, ai tempi dell’Homo Sapiens, che dell’Homo Erectus è l’evoluzione, si servì di strumenti aerofoni (conchiglie, canne, ossa cave) per aumentare le capacità della voce umana, con amplificazione dei volumi e una maggiore diversificazione delle possibilità timbriche. Sin dalla nascita s’instaura un nesso strettissimo tra poesia, musica e sacro: il testo poetico è il mezzo di cui l’uomo si serve per entrare in contatto con le divinità, inizialmente declamato soltanto dalla voce umana, successivamente accompagnato dagli strumenti musicali. Il linguaggio poetico è il linguaggio religioso per antonomasia, dal latino re- ligare, volto alla creazione di un vincolo tra umano e divino: i grandi testi sacri dell’antichità, l’Enuma Elish*, il Gilgamesh**, i testi vedici***, il libro tibetano dei morti****, i testi mitologici egizi, i testi fenici erano scritti in poesia. La stessa Bibbia è per gran parte composta di versi. Omero raccontava la storia di dei e di uomini. Ancora oggi vengono scritte poesie a tema religioso, pensiamo, per esempio, alle poesie di David Maria Turoldo. I poeti greci e latini erano chiamati aedi, citaredi, rapsodi, tutti termini che racchiudono in sé la radice del vocabolo greco “aoidòs”, che significa canto, e il termine “lirica”, cui oggi attribuiamo il significato di “Poesia” o “Bel Canto”, trae origine dalla lira, ossia dallo strumento musicale che accompagnava la declamazione dei versi. Anche i nomi italiani delle diverse forme poetiche testimoniano la connessione con la musica: uno per tutti, il termine “sonetto”, che discende dal latino sonus, ossia suono, attraverso il provenzale “sonet”, diminutivo di “so” = poesia per musica. Ma ricordiamo anche Canzone, Canto, Ballata. Col tempo, il modo di sentire la poesia andò cambiando, e si passò da una poesia cantata a una poesia recitata e letta mentalmente. Ma la musicalità rimane una caratteristica che distingue il testo poetico dalla prosa. Scriveva Eliot che “La musica della poesia deve essere una musica latente nel linguaggio comune di un’epoca.” Per fare un esempio, se ascoltiamo l’attacco dell’”Infinito” di Leopardi: “Sempre caro mi fu quest’ermo colle” , Leopardi avrebbe potuto dire: “Caro mi fu sempre quest’ermo colle”, con una diversa accentuazione degli elementi del discorso, oppure “Quest’ermo colle mi fu sempre caro”, con molta meno efficacia, ma mai avrebbe potuto dire: “Mi fu sempre caro quest’ermo colle”, perché nel suo sistema metrico è un endecasillabo sbagliato.
Il mito greco narra che Anione, figlio di Zeus, suonando la lira fece rotolare spontaneamente le pietre per innalzare le mura a difesa di Troia, e che il poeta- musico Orfeo col suo canto convinse gli dei dell’Averno (ecco l’invocazione agli dei) a restituirgli viva Euridice, uccisa dal morso di una serpe. Il mito ci permette di cogliere un altro aspetto fondamentale della poesia, ossia la sua potenza comunicativa, conferita in primo luogo dalla ridondanza, ossia dalla reiterazione e dalla ritmicità dei suoni. Queste risultarono efficaci non solo per la trasmissione dei messaggi, ma anche per la memorizzazione delle conoscenze acquisite, e quindi per la formazione della cultura. Di più: la poesia, raccontando storie o proponendo regole, denunciava, sobillava, dava cioè un forte sviluppo alla coscienza sociale dell’epoca di appartenenza. Quindi, se in passato la funzione più importante della poesia era quella del consolidamento della memoria collettiva in epoche in cui la scrittura non esisteva e anche dopo, dal momento che per lungo tempo la popolazione è rimasta analfabeta, oggi è quella di essere un propugnante veicolo di idee. Diceva Eco che “la poesia è l’arte di andare a capo arbitrariamente”. L’unità della poesia è il verso, e un verso medio ha una durata di lettura di circa 2,5-3 secondi, dato generale comune a tutte le culture, di oggi come di tremila anni fa. L’andare a capo conferisce alla poesia un’unità ritmica, mentre la parola afferisce il senso logico. Veniamo così al tema che intendiamo affrontare, ossia l’essenzialità in poesia. Scriveva Ezra Pound che la poesia “è l’arte di caricare ogni parola del suo massimo significato”; Simone Weil parlava del “sapore massimo” che detiene ogni parola in poesia; e Cristina Campo sosteneva che “la sostanza stessa della poesia” risiede nella “coesistenza di leggerezza estrema e possente radicamento”. L’amplificazione della potenzialità significante della parola è una peculiarità della poesia in tutte le culture, e si ottiene attraverso un procedimento di sintesi. In Giappone, per esempio, già dai tempi del “Manyoshu”, ossia la prima antologia poetica giapponese, compilata molto probabilmente durante la seconda metà dell’VIII secolo d.C., il “tanka”, letteralmente “poesia breve”, composto soltanto da cinque versi di 5-7-5-7-7 sillabe, prevale nettamente sulle altre forme, forse rispecchiando già un tratto che continuerà a segnare la cultura giapponese, ossia la tendenza a compattare, a preferire ciò che è minuto, perché, secondo le “Note del guanciale” di Sei Shonagon, «in verità, tutte le cose piccole sono belle». Dal tanka scaturirà l’haiku, componimento ancor più breve, di soli tre versi di 5-7-5 sillabe, di cui grande maestro sarà Matsuo Basho, e che affascinerà nel nostro secolo i poeti di tutto il mondo, dagli imagisti a Amy Powell, da Pound a Paz, da Claudel a Eluard, da Machado a Kerouac, e tanti altri. Portiamo un esempio di haiku di Matsuo Basho: “Separazione -/ le spighe dell’orzo / tormentate tra le dita”.L’immagine concreta delle spighe dell’orzo insinua una realtà altra, emotiva, non visibile ad occhi nudi, che è quella del tormento della separazione, paragonabile al dolore che si prova pungendosi le dita con le spighe dell’orzo. L’essenza della poesia risiede allora, in tutte le culture, nel tentativo di dare voce all’ineffabile, a un mondo altro che dà segni di sé attraverso un’attenta osservazione. Simone Weil scriveva che “Il poeta produce il bello con l’attenzione fissata su qualcosa di reale”. Il termine “Attenzione” deriva dal latino ad-tendere, tendere verso qualcosa. Ne “Gli imperdonabili” Cristina Campo sottolineava come l’“attenzione” in poesia consista nella “lettura su molteplici piani della realtà intorno a noi, che è verità in figure”. L’attenzione è « cammino verso l’inesprimibile, la sola strada al mistero. Infatti è solidamente ancorata nel reale, e soltanto per allusioni celate nel reale si manifesta il mistero. I simboli delle sacre scritture, dei miti, delle fiabe, che per millenni hanno nutrito e consacrato la vita, si vestono delle forme più concrete di questa terra, dal Cespuglio Ardente al Grillo Parlante, dal Pomo della Conoscenza alle Zucche di Cenerentola. […] Come il gigante dalla bottiglia, dall’immagine l’attenzione libera l’idea, poi di nuovo raccoglie l’idea dentro l’immagine […]. Essa opera una scomposizione e ricomposizione del mondo in due momenti diversi e ugualmente reali. Compie così la giustizia, il destino: questa drammatica scomposizione e ricomposizione di una forma. L’espressione, la poesia che ne nasce, non potrà essere, evidentemente, che una poesia geroglifica: simile ad una nuova natura. […] Ogni parola si offre nei suoi multipli significati, simili alle faglie di una colonna geologica: ciascuna diversamente colorata e abitata, ciascuna riservata al grado di attenzione di chi la dovrà accogliere e decifrare. Ma per tutti, quando sia pura, ha un colmo dono, che è totale e parziale insieme: bellezza e significato, indipendenti e tuttavia inseparabili, come in una comunione. Come in quella prima comunione che fu la moltiplicazione dei pani e dei pesci. La parola del maestro, dice un racconto ebraico, appariva a ciascuno un segreto destinato all’orecchio suo e a nessun altro: sicché ciascuno sentiva come sua, e completa, la storia meravigliosa che egli narrava nelle piazze e di cui ogni nuovo venuto non udiva che un frammento. » Ecco perché Alejandra Pizarnik scriveva: “straniera sono stata / quando vicina a luci lontane / facevo tesoro di parole purissime / per creare nuovi silenzi”. Il poeta mette a tacere le parole tanto rutilanti quanto inutili, che turbano “il silenzio impassibile della verità assoluta”, come asseriva il grande Ungaretti, per il quale la poesia “porta alla luce enunciazioni essenziali, fulminee, parole che, emerse dal silenzio e da un fondo di meditazione, ambiscono a dire l’essenza di un groviglio di sensazioni”. Per questo motivo Pizarnik affermava: “Io ero predestinata a nominare le cose con nomi essenziali”, ossia epurati di ogni superfluità, resi fulgenti dal loro cogliere la quintessenza trascendente la realtà empirica. L’estetica, dunque, si pone come strumento di conoscenza che affianca le altre scienze. Tutto questo ci porta a concordare con Bobin, che diceva: “Ritaglio una frase finché non rimane niente, e questo niente canta”. Ornella Mallo *Enuma Elish: poema teogonico e cosmogonico della tradizione religiosa babilonese; ** Gilgamesh: l’epopea di Gilgamesh è un’epopea babilonese, il cui nucleo risale a racconti mitologici sumeri: Gilgamesh è una divinità dell’Oriente antico; *** testi vedici: testi sacri scritti in sanscito dei popoli Arii, che invasero l’India: si tratta di un’opera fondamentale nell’Induismo; **** libro tibetano dei morti: libro del fondatore del Buddhismo.
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